E, dal momento che simili esseri certamente esistono, non potrebbe darsi che essi interferiscano (se la si può chiamare interferenza) nei nostri affari creando casualità simili a quella della mantella scarlatta che avevo deciso di lasciare nel rifugio? Non è necessaria una potenza illimitata per interferire con l'economia interna di un nido di formiche... un bambino la può sconvolgere con un rametto. Non riesco ad immaginare un pensiero più terribile di questo. (Quello della morte, che è comunemente supposto il più terribile dei pensieri immaginabili, non mi tormenta molto; è più alla mia vita che io, forse a causa della perfezione della mia memoria, trovo difficile pensare.)
Eppure, esiste un'altra spiegazione: forse tutti coloro che cercano di servire la Teofania, e forse anche tutti coloro che sostengono di servirla, per quanto ci sembrino tanto differenti ed addirittura intenti a combattere una specie di guerra gli uni contro gli altri, sono invece tutti legati fra loro, come la marionetta del ragazzo e dell'uomo di legno che avevo visto una volta in sogno e che, sebbene sembrassero combattersi a vicenda, erano nondimeno sotto il controllo di un invisibile individuo che manipolava i fili di entrambi. Se è così, allora lo shaman da noi visto poteva essere stato un amico ed alleato di quelle sacerdotesse che, con il loro grado di civilizzazione, vagavano in lungo ed in largo per la stessa terra sulla quale lui, una volta, in modo primitivo e selvaggio, aveva offerto sacrifici con la rigidità liturgica di tamburi e crotali nel piccolo tempio della città di pietra.
Con le ultime luci del giorno successivo alla notte trascorsa nel rifugio del pastore, arrivai in vista del lago chiamato Diuturna. Era quello, credo, e non il mare, ciò che avevo visto all'orizzonte prima che la mia mente fosse incatenata da Typhon... se in effetti il mio incontro con Typhon e Piaton non era stato una visione o un sogno, dal quale mi ero per forza svegliato nel punto stesso in cui avevo cominciato a sognare. Comunque, il Lago Diuturna è quasi un mare esso stesso, perché le sue dimensioni sono sufficientemente vaste per risultare incomprensibili alla mente; ed è la mente, dopo tutto, a creare le risonanze generate da quella parola... senza la mente, esiste solo una frazione di Urth coperta di acqua stagnante. Anche se quel lago si trova ad un'altitudine sostanzialmente maggiore di quella del mare vero, io trascorsi buona parte del pomeriggio a scendere verso le sue rive.
Quella camminata costituì un'esperienza notevole, che custodisco ancora con piacere, ed è forse una delle più splendide che riesco a rammentare, anche se ora conservo nella mente le esperienze di così tanti uomini e donne, perché, nel discendere quei pendii, passai attraverso le stagioni dell'anno. Quando avevo lasciato il rifugio del pastore, avevo sopra di me, alle mie spalle ed alla mia destra, grandi distese di neve e ghiaccio, attraverso le quali si vedevano scuri crepacci ancora più gelidi, spazzati dal vento che ne toglieva la neve, che scendeva giù a fondersi sulla tenera erba su cui stavo camminando, l'erba dell'inizio della primavera. Mentre avanzavo, l'erba si fece più dura e di un verde più carico; il suono degli insetti, di cui non sono mai consapevole a meno che lo senta da parecchio tempo, riprese, con un vigore che mi fece tornare in mente l'accordo degli strumenti nella Sala Azzurra, prima dell'inizio della cantilena iniziale, un suono che talvolta ero solito ascoltare quando giacevo sul mio pagliericcio vicino alla porta aperta del dormitorio degli apprendisti.
I cespugli, che, nonostante il loro aspetto snello e forte, non erano stati in grado di sopravvivere alle maggiori altitudini dove invece viveva la tenera erba, fecero ora la loro comparsa; ma, quando li osservai con attenzione, scoprii che non erano cespugli, bensì piante che avevo visto altrove sotto forma di torreggianti alberi, accorciate qui dalla breve durata dell'estate e dalla furia selvaggia degli inverni, spesso spezzati dalle intemperie. Su una di quelle piante nane, trovai un tordo nel nido, il primo uccello che vedevo da qualche tempo, fatta eccezione per i volteggianti rapaci degli alti picchi. Una lega più avanti cominciai a sentire i fischi delle cavie, che avevano i loro nidi in buchi fra le sporgenze rocciose e che protendevano le testine chiazzate dai vivi occhi neri per avvertire i loro simili del mio passaggio.
Ancora una lega, ed un coniglio fuggì saltellando dinnanzi a me, terrorizzato al pensiero della roteante astara, che io invece non possedevo. A quel punto, stavo discendendo rapidamente, e cominciai ad accorgermi di quante forze avessi perduto, non solo a causa della fame e della malattia, ma anche per la rarefazione dell'aria. Era come se fossi stato afflitto da un secondo malessere di cui non mi ero accorto fino a che la ricomparsa dei cespugli e degli alberi aveva procurato la giusta cura.
Ormai, il lago non appariva più una lunga linea azzurra e nebbiosa: potevo scorgerlo come una grande distesa, quasi priva di lineamenti, di acqua del colore dell'acciaio, punteggiata da alcune barche che, come avrei appreso in seguito, erano costruite soprattutto di canne, e con un piccolo e perfetto villaggio all'estremità di una baia posta solo un poco sulla destra della mia attuale linea di viaggio.
Così come non mi ero reso conto di quanto fossi debole fino ad allora, fu solo quando vidi le barche ed il villaggio dai tetti di paglia che compresi quanto mi ero sentito solo da quando il bambino era morto. Era più che semplice solitudine, credo, perché non avevo mai avuto un gran bisogno di compagnia, a meno che fosse la compagnia di qualcuno che potevo chiamare mio amico. Certamente, di rado ho desiderato di conversare con stranieri o di vedere facce sconosciute. Credo piuttosto che, stando da solo, avevo in un certo senso l'impressione di aver perso la mia individualità: per il tordo ed il coniglio, io non ero Severian, bensì l'Uomo. Molta gente che ama vivere completamente sola, e, in particolare, completamente sola in luoghi selvaggi, lo fa, io credo, perché ama interpretare quel ruolo. Ma io volevo tornare ad essere una persona ben determinata, e perciò cercai lo specchio di altre persone, che mi potesse mostrare che non ero identico agli altri.
XXVIII
LA CENA DEL CAPO VILLAGGIO
Si fece quasi sera prima ancora che raggiungessi le prime case. Il sole tracciava un sentiero d'oro rosso sulle acque del lago, un sentiero che sembrava prolungare la strada del villaggio fino ai margini del mondo, cosicché la si sarebbe potuta percorrere per penetrare in un più grande universo. Ma il villaggio, sebbene, quando lo raggiunsi, mi si rivelasse povero e piccolo, era più che soddisfacente per me che avevo camminato per così tanto tempo in luoghi alti e remoti.
Non c'erano locande, e, dal momento che nessuna delle persone che mi sbirciavano da sopra il bordo dei davanzali mi sembrava particolarmente ben disposta a lasciarmi entrare, chiesi quale fosse la casa del capo del villaggio, spinsi da un lato la donna grassa che mi venne ad aprire e mi misi a mio agio. Quando finalmente il capo del villaggio giunse a vedere chi si era autonominato suo ospite, io avevo già tirato fuori la pietra per affilare, l'olio e lo straccio e mi stavo chinando sulla lama di Terminus Est mentre mi riscaldavo accanto al fuoco. Il capo del villaggio esordi con l'inchinarsi, ma era tanto curioso nei miei confronti che non seppe resistere alla tentazione di darmi un'occhiata mentre s'inchinava, al punto che io trovai difficoltà nell'evitare di guardarlo a mia volta, il che sarebbe stato fatale per i miei piani.
— L'ottimate è il benvenuto — disse l'uomo, atteggiando ad un sorriso le guance avvizzite. — Molto benvenuto. La mia povera casa... tutto il nostro povero villaggio, sono a sua disposizione.
— Io non sono un ottimate — gli risposi. — Io sono il Gran Maestro Seyerian, dell'Ordine dei Cercatori della Verità e della Penitenza, comunemente detto la corporazione dei torturatori. Tu, capo villaggio, ti rivolgerai a me chiamandomi Maestro. Ho avuto un viaggio difficile, e se mi procurerai una buona cena ed un letto decente, sarà difficile che io arrechi ulteriori disturbi a te o alla tua gente prima di domattina.
— Avrai il mio letto — replicò prontamente l'uomo, — e tutto il cibo che riusciremo a trovare.
— Dovete avere abbondanza di pesce fresco, qui, ed uccelli acquatici. Li voglio entrambi, ed anche riso selvatico. — Mi rammentai che una volta, mentre discuteva sui rapporti della nostra corporazione con le altre della Cittadella, Maestro Gurloes mi aveva detto che uno dei modi migliori per dominare un uomo è quello di chiedergli qualcosa che non è in grado di fornire. — Miele, pane fresco, e burro dovrebbero bastare, a parte le verdure e l'insalata, ma, dato che non ho preferenze in merito, lascerò a te di farmi una sorpresa. Portami qualcosa di buono, e qualcosa che non abbia mai mangiato prima, in modo che io possa raccontarlo quando tornerò alla Casa Assoluta.
Mentre parlavo, gli occhi del capo del villaggio si erano fatti sempre più rotondi, e, alla menzione della Casa Assoluta, che in quello sperduto villaggio non doveva essere indubbiamente altro che la più vaga delle voci, essi parvero sul punto di schizzargli fuori dalle orbite. Cercò di mormorare qualcosa in merito al bestiame (probabilmente non erano in grado di produrre burro a quell'altitudine), ma io lo congedai con un cenno, e poi lo acciuffai per la collottola perché non si era richiuso la porta alle spalle.
Quando se ne fu andato, corsi il rischio di togliermi gli stivali. Non è mai opportuno apparire troppo rilassati in presenza dei prigionieri (ed il capo ed il suo villaggio erano ora miei prigionieri, pensai, anche se non erano rinchiusi), ma mi sentivo certo che nessuno avrebbe osato entrare in quella stanza prima che fosse stato approntato un qualche pasto. Finii di oliare Terminus Est, poi ne affilai nuovamente le estremità. Ciò fatto, trassi fuori l'altro mio tesoro (anche se in effetti non era mio) dalla sacca e lo osservai alla luce del pungente fuoco. Da quando avevo lasciato Thrax, esso non premeva più contro il mio petto come un pugno di ferro... addirittura, mentre vagavo fra le montagne ero giunto al punto di dimenticarmene per una mezza giornata, ed una volta o due lo avevo afferrato in preda al panico, temendo, quando mi ero finalmente rammentato di lui, di averlo perduto. In quella stanza squadrata e dal tetto basso, in cui le rotonde pietre delle pareti sembravano scaldarsi il ventre al fuoco come autorevoli cittadini, esso non brillava come aveva fatto nello jacal del ragazzo dall'occhio malato, ma non era neppure inerte come quando l'avevo mostrato a Typhon. Ora, piuttosto, sembrava irradiare luce, al punto che potevo quasi immaginare il gioco di energie sulla mia faccia. Il marchio a forma di luna crescente nel cuore della gemma non mi era mai parso più distante di così, e, sebbene esso fosse scuro, ne emanava un punto di luce.
Finalmente riposi la gemma, vergognandomi un poco di aver giocherellato con una cosa di tanto valore come fosse stato un ciottolo. Trassi fuori il libro marrone, ed avrei voluto leggerne un brano, se solo avessi potuto; ma, sebbene la febbre sembrasse avermi lasciato, ero ancora molto affaticato, e la tremolante luce del fuoco faceva danzare sulla pagina le vecchie parole scarabocchiate e presto sconfisse i miei occhi, al punto che la storia che stavo leggendo mi parve in certi momenti essere un cumulo di sciocchezze, ed in altri aver a che fare con la mia situazione... viaggi senza fine, la crudeltà della folla, ruscelli colmi di sangue. Una volta mi parve di scorgere il nome di Agia, ma quando guardai meglio, la parola era divenuta la parola ancora: «Agia balzò, e contorcendosi intorno alle colonne del carapace...»
La pagina sembrava luminosa e al contempo indecifrabile, come il riflesso di un vetro visto in una polla tranquilla. Chiusi il libro e lo riposi nella mia giberna, senza essere certo di aver realmente visto alcuna delle parole che avevo pensato un istante prima di aver letto. Agia doveva effettivamente essere balzata giù dal tetto di zolle della casa di Casdoe, e certo contorceva le cose, poiché aveva distorto l'esecuzione di Agilus facendone un omicidio. Si suppone che la grande testuggine che, secondo il mito, reggerebbe il mondo e sarebbe quindi un'incarnazione dell'universo, abbia rivelato in tempi antichi la Regola Universale, andata perduta, in base alla quale si può essere sempre certi di agire correttamente. Il suo carapace rappresenta la coppa del cielo, il suo piastrone le pianure di tutti i mondi, mentre le colonne del carapace dovrebbero rappresentare le armate del Teologumeno, terribili e splendenti...
Eppure, non ero certo di aver letto nulla di tutto questo, e quando tirai nuovamente fuori il libro e tentai di ritrovare la pagina non vi riuscii. Per quanto sapessi che la mia confusione era esclusivamente dovuta alla stanchezza, alla fame ed alla luce, provai quel timore che mi aveva sempre assalito in molte occasioni della mia vita, quando qualche piccolo incidente mi aveva reso consapevole di un'incipiente insanità mentale. Mentre fissavo il fuoco, mi parve più probabile di quanto mi sarebbe piaciuto credere che un giorno, magari a causa di un colpo in testa, o magari senza alcun motivo determinato, la mia ragione e la mia immaginazione si scambiassero di posto... proprio come due amici che tutti i giorni vanno a sedersi sulla stessa panchina in un giardino pubblico, ed un giorno decidono di scambiarsi di posto, giusto per amor di novità. Allora avrei visto come reali tutti i fantasmi della mia mente, mentre avrei percepito solo nel modo vago in cui solitamente percepiamo paure ed ambizioni, le persone e le cose del mondo reale. Questi pensieri, espressi a questo punto della narrazione, devono sembrare dettati da una sorta di prescienza, ed io li posso giustificare soltanto dicendo che, tormentato come sono sempre dalla mia memoria, ho meditato molto spesso nello stesso senso.
Un leggero bussare alla porta pose fine alla mia vaga fantasticheria; mi infilai gli stivali e chiamai:
— Avanti!
Una persona che badò bene a restare fuori dal mio campo visivo, per quanto fossi certo che si trattava del capo villaggio, spinse indietro la porta, ed una giovane donna entrò portando un vassoio d'ottone carico di piatti.
Fu soltanto quando la ragazza ebbe deposto il vassoio che mi accorsi che era completamente nuda, fatta eccezione per quelli che inizialmente scambiai per rozzi gioielli. E soltanto quando s'inchinò, portandosi le mani alla fronte nel gesto di saluto tipico del nord, vidi che le bande di metallo cupamente brillante intorno ai suoi polsi non erano braccialetti, bensì manette d'acciaio temprato congiunte da una catena.
— La tua cena, Grande Maestro — disse la ragazza, ed indietreggiò verso la porta fino a che potei notare la carne dei suoi tondi fianchi premuta contro il battente. Con una mano, la ragazza tentò di sollevare il chiavistello, ma, sebbene udissi il suo debole scricchiolare, la porta non cedette. Indubbiamente, la persona che l'aveva fatta entrare la stava tenendo chiusa dall'esterno.
— L'odore è delizioso — le dissi. — Hai cucinato tu?
— Qualche cosa. Il pesce e le frittelle.
Mi alzai in piedi, ed appoggiai Terminus Est alla rozza parete in modo da non spaventare la ragazza, quindi procedetti ad esaminare il pasto: una giovane anatra, tagliata e cotta alla griglia, il pesce citato dalla ragazza, le frittelle (che più tardi scoprii essere di farina mescolata a molluschi tritati), patate cotte nelle ceneri di un fuoco ed un'insalata di funghi e verdure.
— Niente pane — dissi, — niente miele e niente burro. Mi sentiranno.
— Speravamo, Grande Maestro, che le frittelle ti avrebbero soddisfatto.
— Mi rendo conto che non è colpa tua.
Era passato parecchio tempo da quando ero stato con Cyriaca, ed ora, per quanto avessi cercato di evitarlo, mi trovai ad osservare quella schiava. I lunghi capelli neri le arrivavano alla cintura, e la sua pelle aveva quasi lo stesso colore del vassoio che reggeva, eppure aveva la vita sottile, cosa rara fra le donne autoctone, ed il suo viso era piccante e perfino leggermente aguzzo. Agia, nonostante la pelle chiara e le lentiggini, aveva un viso decisamente più largo.
— Grazie, Grande Maestro. Lui vuole che rimanga qui e ti serva mentre mangi. Se non lo desideri, devi dirgli di aprire la porta e di lasciarmi uscire.
— Gli dirò — replicai, alzando la voce, — di allontanarsi dalla porta e di smetterla di origliare mentre conversiamo. Stai parlando del tuo padrone, suppongo, del capo di questo villaggio.
— Sì, di Zambdas.
— E qual è il tuo nome?
— Pia, Grande Maestro.
— E quanti anni hai, Pia?
Me lo disse, e sorrisi nello scoprire che aveva esattamente la mia stessa età.
— Ora tu mi devi servire, Pia. Io mi siederò là, vicino al fuoco, dove mi trovavo prima che tu venissi, e tu mi porterai il cibo. Hai mai servito a tavola, prima d'ora?
— Oh, sì, Grande Maestro, servo ad ogni pasto.
— Allora dovresti sapere come fare. Cosa mi raccomandi per primo... il pesce? — chiesi, e lei annuì. — Allora portamelo qui, ed anche il vino e qualcuna delle frittelle. Hai mangiato?
— Oh, no, ma non sarebbe giusto che io mangiassi con te — mi rispose, scuotendo il capo fino a far danzare i capelli neri.
— Eppure, vedo che riesco a contare parecchie costole.
— Sarei battuta per questo, Grande Maestro.
— Non finché io sarò qui, per lo meno. Comunque, voglio accertarmi che non sia stato messo in questo cibo qualcosa che io non darei neppure al mio cane, se lo avessi ancora. Il vino sarebbe il candidato ideale, credo; dovrebbe essere grezzo ma dolce, come la maggior parte dei vini di campagna. — Riempii a metà il boccale di pietra e lo porsi alla ragazza. — Bevilo, e se non cadrai a terra in preda alle convulsioni, lo assaggerò anch'io.
Pia ebbe qualche difficoltà a trangugiare il vino, ma alla fine ci riuscì, e mi restituì il boccale con occhi lacrimosi. Allora mi versai un po' di vino a mia volta e lo trovai cattivo come mi ero aspettato.
Feci quindi sedere Pia accanto a me e le feci mangiare uno dei pesci che aveva fritto con le sue mani, e, quando ebbe finito, ne mangiai un paio anch'io: i pesci erano tanto più buoni del vino quanto il volto delicato di Pia era più bello di quello del vecchio capo villaggio, erano certo stati pescati quel giorno ed in acque molto più pulite e profonde di quelle fangose del Gyoll, da cui veniva il pesce che ero solito mangiare nella Cittadella.
— Incatenano sempre i loro schiavi, qui? — le chiesi, mentre ci dividevamo le frittelle. — Oppure tu sei stata particolarmente ribelle, Pia?
— Io appartengo al popolo del lago — mi rispose, come se fosse sufficiente, il che indubbiamente era per chi avesse avuto familiarità con la situazione locale.
— Penserei che questa gente sia il popolo del lago — replicai, indicando con un gesto la casa ed il resto del villaggio.
— Oh, no, questo è il popolo delle rive. Il nostro popolo vive sul lago, su isole, ma qualche volta il vento spinge le nostre isole vicino alla riva, e Zambdas teme che io possa scorgere la mia casa e cercare di raggiungerla a nuoto. La catena è pesante... vedi com'è lunga... ed io non me la posso togliere, e così il suo peso mi farebbe annegare.
— A meno che tu non trovassi un pezzo di legno cui appoggiarne il peso mentre nuoti con i piedi — obiettai, ma fece finta di non sentire.
— Ti andrebbe un pezzo di anatra, Gran Maestro?
— Sì, ma a patto che tu ne mangi prima un po', e prima ancora voglio che tu mi parli di queste isole. Hai detto che il vento le spinge qui? Confesso di non aver mai sentito parlare di isole mosse dal vento.
Pia stava fissando con desiderio l'anatra, che doveva essere considerata una delicatezza prelibata in quella parte del mondo.
— Ho sentito dire che ci sono isole che non si muovono. Deve essere una cosa molto antipatica, credo, e non ne ho mai vista una. Le nostre isole si spostano da un luogo all'altro, e talvolta noi stendiamo vele fra gli alberi per farle viaggiare più in fretta. Tuttavia, non si muovono molto bene sotto la spinta del vento perché non hanno un fondo fatto come quello delle barche, ma fondi insulsi come quelli delle vasche da bagno, e talvolta si rovesciano.
— Voglio vedere le tue isole, prima o poi, Pia — le dissi, — e voglio anche vederti tornare ad esse, dato che mi sembra che è là che desideri andare. Devo qualcosa ad un uomo dal nome molto simile al tuo, e perciò cercherò di aiutarti prima di lasciare questo luogo. Nel frattempo, farai meglio ad aumentare le tue forze con un po' di quell'anatra.
Ne prese un pezzo, e, dopo aver inghiottito qualche boccone, cominciò a staccare porzioni di carne che mi diede con le sue dita. Era molto buona, ancora fumante e ripiena di aromi delicati che mi ricordavano il gusto del prezzemolo, forse a causa delle piante acquatiche di cui quelle anatre si nutrivano. Quando ebbi mangiato quasi un'intera coscia, presi qualche boccone d'insalata per pulirmi il palato.
Credo di aver mangiato in seguito ancora un po' di anatra, poi una figura nel fuoco attirò la mia attenzione. Un frammento di legno consumato, ardente di calore, era caduto da uno dei ceppi nelle ceneri sotto la grata, ma, invece di rimanere là e di divenire infine nero e spento, parve raddrizzarsi e trasformarsi in Roche, con i suoi capelli rossi tramutati in fiamma vera, Roche che teneva in mano una torcia come era solito fare quando da ragazzi andavamo a nuotare nella cisterna sotto il Forte della Campana.
Mi parve talmente straordinario vederlo là, ridotto ad un ardente micromorfo, che mi volsi verso Pia per indicarglielo. Ebbi l'impressione che la ragazza non avesse visto nulla, ma Drotte, non più alto del mio pollice, era fermo sulla sua spalla, mezzo nascosto fra i suoi fluenti capelli neri. Quando tentai di dire a Pia che Drotte era là, mi trovai a parlare in una nuova lingua, sibilando, grugnendo e schioccando la lingua. Non provai paura per nessuna di queste cose, solo un distaccato senso di meraviglia.
Riuscivo a capire che non mi stavo esprimendo nel normale linguaggio umano, ed osservavo il volto inorridito di Pia come se fosse stato un antico dipinto nelle gallerie del vecchio Rudisind, nella Cittadella. Eppure, non riuscivo a tramutare i suoni
che emettevo in parole, e neppure a bloccarli. Pia urlò.
La porta si spalancò. Era rimasta chiusa per così tanto tempo che mi ero quasi dimenticato che non poteva essere chiusa a chiave, ma ora era aperta e due figure erano ferme sulla soglia. Quando la porta si aprì, essi erano uomini, uomini le cui facce erano state sostituite da lisce pellicce simili a quelle di due otarie, ma pur sempre uomini. Un momento più tardi, erano diventati piante, alti steli di viridiana da cui sporgevano le foglie, stranamente angolate e taglienti come rasoi, dell'avern. Ragni, neri e morbidi e dalle gambe multiple si nascondevano là. Tentai di alzarmi dalla sedia, ed essi mi gettarono addosso larghe ragnatele splendenti alla luce del fuoco. Ebbi solo il tempo di scorgere e di ricordare il volto di Pia, con gli occhi dilatati e la bocca delicata raggelata in un cerchio inorridito, prima che una Pellegrina con un becco d'acciaio piombasse su di me e mi strappasse l'Artiglio dal collo.
XXIX
LA BARCA DEL CAPO VILLAGGIO
Venni rinchiuso al buio per un periodo di tempo che più tardi scoprii essere durato tutta la notte e gran parte del mattino successivo. Eppure, sebbene dove giacevo fosse buio, inizialmente non me ne resi conto, perché le mie allucinazioni non avevano bisogno della luce di una candela. Le ricordo ancora, così come ricordo ogni cosa, ma non ti annoierò, mio ultimo lettore, con l'intero catalogo dei fantasmi che vidi, anche se sarebbe per me molto facile descriverli qui. Quello che non è facile, è esprimere i miei sentimenti relativamente ad essi.
Sarebbe stato un grande sollievo per me poter credere che quei fantasmi erano tutti in qualche modo creati dalla droga somministratami (che era, come intuii allora e come appresi più tardi, quando potei interrogare coloro che curavano i feriti dell'esercito dell'Autarca, contenuta nei funghi affettati nella mia insalata), così come i pensieri e la personalità di Thecla, confortanti a volte e disturbanti in altre occasioni, erano stati contenuti nel frammento della sua carne che avevo mangiato al banchetto di Vodalus. Eppure, sapevo che non poteva essere così, e che tutte le cose che vedevo, alcune divertenti, altre orribili e terrificanti, altre ancora semplicemente grottesche, erano un prodotto della mia mente. O di quella di Thecla, che ora faceva parte della mia.
O piuttosto, come iniziai a comprendere là nell'oscurità, mentre osservavo una parata di donne della corte... esultanti estremamente alte e piene della rigida grazia delle porcellane costose, i volti incipriati con polvere di perle e di diamanti e gli occhi allargati, come lo erano stati quelli di Thecla, dall'applicazione di minuscole dosi di certi veleni durante l'infanzia... prodotti della mente che ora esisteva come combinazione delle menti che erano state la sua e la mia.
Severian, l'apprendista che ero stato, il giovane uomo che nuotava sotto il Forte della Campana, che una volta era quasi affogato nel Gyoll, che aveva vagabondato da solo nei giorni estivi nella necropoli in rovina, che aveva dato alla Castellana Thecla, una volta giunto al nadir della sua disperazione, il coltello rubato, era scomparso.
Ma non era morto. Perché aveva supposto che ogni vita dovesse terminare con la morte e mai con qualcosa d'altro? Non era morto, ma era svanito, così come una singola nota svanisce per non riapparire mai più quando diviene un'indistinguibile ed inseparabile parte di qualche melodia. Quel giovane Severian aveva odiato la morte, e per misericordia dell'Increato, la cui pietà in effetti (come è saggiamente detto in molti posti) ci confonde e ci distrugge, non era morto.
Le donne volsero i lunghi colli a guardarmi: i loro volti ovali erano perfetti, simmetrici, privi di espressione eppure lascivi. All'improvviso compresi che esse non erano... o almeno non erano più... le castellane della Casa Assoluta, ma erano divenute invece le cortigiane della Casa Azzurra.
Per qualche tempo, così mi parve, la parata di quelle donne seducenti ed inumane continuò, e, a ciascun battito del mio cuore (di cui in quel momento ero consapevole come non lo ero mai stato prima o come non lo sarei più stato, perché mi pareva di avere un tamburo che mi sussultava in petto) esse invertivano i loro ruoli senza mutare neppure il più piccolo dettaglio del loro aspetto. Come mi è talvolta capitato, in sogno, di capire che una certa figura era in effetti qualcun altro cui non somigliava affatto, così sapevo che un momento quelle donne erano gli ornamenti della presenza autarchiale, ed il momento successivo erano donne in vendita per una notte in cambio di una manciata di oricalchi.
Durante tutto quel tempo, e nei periodi molto più lunghi che lo precedettero e lo seguirono, rimasi in uno stato di notevole disagio. Le ragnatele, che gradualmente identificai per reti da pesca, non erano state rimosse, ma ero stato anche legato con corde, cosicché avevo un braccio inchiodato contro un fianco, e l'altro piegato in modo tale che le dita della mano, che presto s'intorpidirono, mi toccavano quasi il volto. Al culmine dell'effetto della droga, ero divenuto incontinente, ed ora avevo i calzoni inzuppati di urina fredda e puzzolente. Man mano che le mie allucinazioni si fecero meno violente e gli intervalli di lucidità più lunghi, la miseria della mia situazione mi afflisse maggiormente, e cominciai a temere quello che mi sarebbe potuto accadere quando infine mi avrebbero tirato fuori da quel magazzino privo di finestre in cui mi avevano gettato. Supponevo che il capo del villaggio avesse appreso da qualche staffetta che io non ero colui che pretendevo di essere, e certo anche il fatto che stavo sfuggendo la giustizia. In quelle circostanze, potevo solo chiedermi se mi avrebbe giustiziato il capo villaggio stesso (indubbiamente mediante strangolamento, in un luogo come quello), o se questi mi avrebbe consegnato a qualche etnarca o rispedito a Thrax. Decisi di togliermi io stesso la vita se mi si fosse offerta quell'opportunità, ma la cosa mi sembrava tanto improbabile che mi sentivo già morire dalla disperazione.
Finalmente, la porta si aprì, e la luce che entrò, per quanto fosse solo quella proveniente da una stanza in penombra della casa dai muri spessi, mi parve acccecante. Due uomini mi trascinarono fuori come se fossi stato un sacco di farina. Avevano folte barbe, e supposi che fossero state quelle barbe a farmi pensare a pellicce di animali, quando essi avevano aggredito Pia e me. Mi misero in piedi, ma le gambe non mi reggevano e quindi furono costretti a slegarmi ed a togliere le reti che avevano avuto ragione di me là dove la rete mentale di Typhon aveva fallito. Quando fui di nuovo in grado di reggermi, mi diedero una ciotola d'acqua ed una striscia di pesce salato.
Dopo qualche tempo, entrò il capo del villaggio. Per quanto avesse assunto lo stesso atteggiamento pieno d'importanza che indubbiamente usava quando trattava gli affari del villaggio, l'uomo non riusciva ad allontanare un certo tremore dalla sua voce: non potevo capire perché mai dovesse avere ancora paura di me, ma era evidente che ne aveva. Di conseguenza, dal momento che non avevo nulla da perdere a tentare, gli ordinai di liberarmi.
— Questo non lo posso fare, Grande Maestro — mi rispose. — Sto agendo in base ad istruzioni.
— Posso chiederti chi ha osato ordinarti di agire in questo modo verso un rappresentante del tuo Autarca?
— Ho avuto istruzioni dal Castello. — L'uomo si schiari la gola. — Il mio uccello messaggero ha portato lassù il tuo zaffiro la notte scorsa, e questa mattina è tornato un altro uccello con un segno che significava che dobbiamo condurti là.
Dapprima supposi che intendesse parlare del Castello di Acies, dove uno degli squadroni di dimarchi aveva il quartier generale, ma, dopo un momento, mi resi conto che qui, a quaranta leghe almeno di distanza dalle fortificazioni di Thrax, era molto improbabile che il mio interlocutore potesse essere tanto dettagliato.
— Di che castello si tratta? — chiesi. — E le tue istruzioni precludono la possibilità che io mi possa ripulire e faccia lavare i miei abiti prima di presentarmi?
— Suppongo che si possa fare — replicò, incerto, il capo villaggio, e poi, rivolto ad uno degli uomini, chiese: — Com'è il vento?
L'uomo rispose con una mezza scrollata di spalle che, pur non significando nulla per me, parve contenere una qualche informazione per il capo del villaggio.
— D'accordo — mi disse questi. — Non ti possiamo liberare, ma laveremo i tuoi abiti e ti daremo qualcosa da mangiare, se lo desideri. — Mentre si accingeva ad andarsene, si volse verso di me con un'espressione quasi apologetica sul volto. — Il Castello è vicino, Grande Maestro, mentre l'Autarca è lontano. Noi abbiamo avuto grandi difficoltà nel passato, ma ora siamo in pace.
Avrei voluto discutere con lui, ma non me ne diede l'opportunità e si chiuse la porta alle spalle.
Pia, ora vestita con una camiciola lacera, venne da me poco tempo dopo. Fui costretto a sottomettermi all'indegnità di essere spogliato e lavato da lei, ma riuscii ad avvantaggiarmi della cosa approfittandone per sussurrarle se poteva fare in modo che la mia spada venisse inviata dove stavo per essere portato io... perché speravo di poter fuggire, anche a costo di rivelare al padrone del castello misterioso la mia situazione e di offrirgli di unire la mia forza alla sua. Così come aveva ignorato le mie parole quando le avevo suggerito di appoggiare il peso della catena su un pezzo di legno per poter fuggire a nuoto, anche ora Pia non mostrò di avermi udito; ma un turno di guardia più tardi, mentre io, rivestito, venivo condotto verso una barca alla presenza dell'intero villaggio, Pia raggiunse di corsa la nostra piccola processione portando Terminus Est fra le braccia. Evidentemente, il capo villaggio aveva sperato di potersi tenere quella bella spada e la sgridò; ma io riuscii ad avvertirlo, mentre ero trascinato a bordo, che non appena fossi giunto al castello, avrei informato chiunque mi avesse accolto dell'esistenza della mia spada. Alla fine, il capo villaggio si arrese.
La barca era di un tipo che non avevo mai visto prima. Per la sua forma, avrebbe potuto essere uno xebec, appuntito a prua ed a poppa e largo nel centro, con una lunga poppa ricurva ed una prua ancor più lunga. Peraltro, la bassa chiglia era costruita con fasci di resistenti canne legate fra loro, fino a formare una specie di traliccio. In un involucro così fragile non poteva essere installato un albero convenzionale, ed al suo posto c'erano tre pali legati a formare un triangolo, la cui stretta base andava da una frisata all'altra. I lunghi lati isosceli sostenevano un bozzello che serviva, come stava accadendo mentre io ed il capo villaggio salivamo a bordo, per issare un pennone incrinato cui era fissata una vela di lino a larghe strisce colorate. Il capo villaggio teneva ora la mia spada, ma, non appena l'ormeggio venne sganciato, Pia balzò nella barca facendo tintinnare la sua catena.
Il capo villaggio era furioso e la colpì, ma non è cosa facile manovrare la vela di un'imbarcazione di quel genere e farla girare subito su se stessa, così alla fine, pur scacciandola, piangente, a poppa, il capo villaggio permise alla ragazza di rimanere. Mi azzardai allora a chiedergli come mai Pia fosse voluta venire con noi, pur supponendo di saperlo già.
— Mia moglie è dura con lei quando io non ci sono — mi rispose. — La picchia e la obbliga a fregare per terra tutto il giorno. Naturalmente, questo è un bene per la bambina, e la rende felice il vedermi tornare a casa. Ma lei preferisce venire con me, e non la posso certo biasimare.
— Né la biasimo io — replicai, cercando di girare la faccia per evitare il suo alito rancido. — Tra parentesi, così arriverà vicino al castello, che suppongo non abbia mai visto.
— Ne ha visto le mura centinaia di volte. Lei proviene dal popolo del lago senza terra, e quella gente viene sospinta in giro dal vento, per cui vedono di tutto.
Se il popolo del lago era sospinto dal vento, così lo eravamo anche noi. Un'aria pura e sottile gonfiò la vela a righe, fece rollare perfino l'ampia carena e ci sospinse rapida sull'acqua fino a quando il villaggio svanì all'orizzonte... anche se i bianchi picchi delle montagne erano ancora visibili e sembravano levarsi dal lago stesso.
XXX
NATRIUM
Quei pescatori che vivevano sulle rive del lago erano armati in maniera talmente primitiva... addirittura più primitiva di quanto lo fossero gli autoctoni selvaggi che avevo visto in giro per Thrax... che ci misi parecchio tempo prima di capire che erano effettivamente armati. A bordo c'erano più persone di quante fossero necessarie per pilotare e manovrare la vela, ma io pensai che gli altri fossero rematori o che rappresentassero una scorta destinata ad accrescere il prestigio del capo villaggio quando questi mi avesse consegnato al suo signore, al castello. Alla cintura portavano coltelli dalla lama diritta e stretta del tipo usato dovunque dai pescatori, ed a prua era sistemato un fascio di lance da pesca, ma non diedi importanza alla cosa. Fu soltanto quando una delle isole che ero stato tanto ansioso di vedere apparve all'orizzonte, che scorsi uno degli uomini impugnare una mazza munita all'estremità di denti di animali e che mi resi finalmente conto che quegli uomini in più erano stati portati come guardia, e che c'era qualcosa contro cui guardarsi.
La piccola isola non aveva in apparenza nulla di eccezionale, fino a che non ci si accorgeva che in effetti si muoveva. Era bassa e molto verde, e sulla sua punta più alta c'era una piccola capanna, costruita anch'essa di canne, come la barca, e con un tetto dello stesso materiale. Quando fummo più vicini, vidi che anche l'isola era fatta di canne, ma di canne vive i cui steli conferivano quel verde caratteristico, mentre le radici intrecciate formavano la base a forma di zattera. Su quell'ammasso vivente, il terriccio si era accumulato da solo o era stato ammucchiato dagli abitanti. Alcuni alberi erano cresciuti sull'isola e le loro radici finivano immerse nell'acqua del lago. Un piccolo orto di vegetali appariva rigoglioso.
Poiché il capo villaggio e tutti gli altri occupanti la barca, fatta eccezione per Pia, fissavano con preoccupazione quella piccola isola, io la contemplai con piacere. Del resto, vista come la vedevo io allora, una macchia di verde che si stagliava contro il freddo ed apparentemente infinito azzurro della superficie del Diuturna e contro il più profondo e più caldo, ma realmente infinito, azzurro del cielo coronato dal sole e spruzzato di stelle, quell'isoletta era facile da amare. Se avessi osservato quella scena come fosse stata un quadro, essa mi sarebbe parsa più pesantemente simbolica... la linea piana dell'orizzonte che divideva lo scenario in due metà uguali, il punto di verde con i suoi alberi e la capanna marrone... una di quelle pitture che i critici sono soliti deridere per via del loro simbolismo. Eppure, chi avrebbe potuto dire quale fosse il suo significato? È impossibile, io credo, che tutti i simboli che vediamo nei paesaggi naturali siano là solo perché noi li vediamo. Nessuno esita a marchiare con la qualifica di pazzo il solipsista che crede veramente che il mondo esista soltanto perché lui lo osserva e che edifici, montagne e perfino noi stessi (cui egli ha parlato solo un momento prima) svaniranno non appena avrà voltato il capo. Non è dunque altrettanto pazzesco credere che il significato di quegli stessi oggetti svanisca nel medesimo modo? Se Thecla aveva simbolizzato quell'amore di cui io mi sentivo indegno, come ora so che aveva effettivamente fatto, forse che la forza del suo simbolismo svaniva quando io richiudevo alle mie spalle la porta della sua cella? Sarebbe come dire che ciò che è descritto in questo libro, cui ho lavorato per così tanti turni di guardia, svanirà in una chiazza vermiglia quando io lo chiuderò per l'ultima volta e lo manderò nell'eterna biblioteca curata dal vecchio Ultan.
Il grande dilemma su cui stavo riflettendo allora, mentre osservavo l'isola galleggiante con desiderio e lottavo contro i miei legami imprecando in cuor mio contro il capo villaggio, era quello di stabilire cosa significhino quei simboli in e per se stessi. Noi siamo come bambini che guardano le parole stampate e vedono un serpente nella penultima lettera ed una spada nell'ultima.
Non so quale fosse il messaggio a me rivolto dalla piccola capanna e dal suo giardinetto sospesi fra due infiniti. Però, il significato che io vi lessi fu quello della libertà e di una casa, ed allora provai un desiderio di libertà, per la possibilità di vagare a mio piacimento per i mondi superiori ed inferiori, portando con me quelle comodità che mi erano sufficienti, maggiore di quel che avessi mai provato prima... anche quando ero stato prigioniero nell'Anticamera della Casa Assoluta o quando ero stato io stesso cliente dei torturatori della Vecchia Cittadella.
In quel momento, proprio quando maggiormente desideravo di essere libero e quando la nostra rotta ci aveva portati il più vicino possibile all'isola, un uomo ed un ragazzo di circa quindici anni uscirono dalla capanna e ci fissarono come se stessero valutando le dimensioni della barca ed il suo equipaggio. C'erano cinque uomini del villaggio a bordo, più il capo, e, sebbene sembrasse evidente che gli isolani non potevano fare nulla contro di noi, essi fecero muovere la loro leggera zattera, l'uomo remando per seguirci ed il ragazzo tendendo una rozza vela.
Il capo villaggio, che di tanto in tanto si voltava ad osservare gli isolani, era seduto accanto a me con Terminus Est in grembo, ed io avevo l'impressione che da un momento all'altro dovesse deporre la spada per andare a poppa a parlare con l'uomo al timone, oppure a prua a parlare con gli altri quattro che oziavano là. Avevo le mani legate davanti a me, e mi sarebbe bastato un istante per snudare un pollice di lama della spada e tagliare le corde, ma l'opportunità non si presentò mai.
Una seconda isola apparve in vista, e comparve anche un'altra barca, che trasportava due uomini. Adesso la situazione era leggermente peggiorata, ed il capo villaggio chiamò a sé uno dei suoi uomini e si spostò verso poppa di un paio di passi, portandosi dietro la mia spada. Aprirono un cesto di metallo che era nascosto sotto la piattaforma del timoniere ed estrassero un'arma di un tipo che non avevo mai visto in precedenza: un arco ottenuto legando insieme due archi sottili, ciascuno dei quali aveva la sua corda, e fissandoli a sostegni che li tenevano ad una spanna circa di distanza l'uno dall'altro. Le corde erano legate insieme al centro, cosicché l'arma veniva a costituire una sorta di fionda per un proiettile.
Mentre seguivo con curiosità quelle manovre, Pia mi si fece più vicina.
— Mi stanno osservando — sussurrò. — Non ti posso liberare ora, ma forse... — e lanciò un'occhiata significativa in direzione delle barche che seguivano la nostra.
— Ci attaccheranno?
— No, a meno che altri ancora non si uniscano a loro. Essi hanno soltanto lance da pesca e pachos. — Vedendo che non capivo, aggiunse: — Bastoni con i denti... anche uno di questi uomini ne ha uno.
L'uomo convocato dal capo villaggio stava prendendo dal canestro quel che sembrava una straccio unto. Lo aprì appoggiandolo al coperchio del cesto e mise in mostra parecchi proiettili di metallo color grigio argenteo e dall'aspetto oleoso.
— I proiettili del potere — osservò Pia, e pareva spaventata.
— Pensi che verranno altri del tuo popolo?
— Se oltrepasseremo altre isole. Se una o due barche seguono un'imbarcazione di terra, allora lo fanno tutti, per dividersi il bottino. Ma presto saremo nuovamente in vista della riva... — Sotto la camicia stracciata il suo seno si sollevò nel momento in cui l'uomo del villaggio si puliva le mani sulla giacca, prendeva uno dei proiettili argentati e lo sistemava nella corda dell'arco doppio.
— È solo una pietra pesante... — cominciai a dire. L'uomo tirò indietro la corda fino all'orecchio, poi la lasciò andare, ed il proiettile passò sibilando nello spazio fra i due sottili archi. Pia era apparsa così spaventata che io mi aspettavo quasi che il proiettile subisse una qualche trasformazione in volo, divenendo forse uno di quei ragni che ero ancora mezzo convinto di aver visto mentre ero drogato ed ero intrappolato nelle reti di quei pescatori.
Non accadde nulla del genere. Il proiettile volò... una striscia brillante... sull'acqua e cadde nel lago ad una dozzina di passi circa dalla prua della barca più vicina.
Per il tempo di un respiro non accadde nulla. Poi vi fu una violenta detonazione, una sfera di fuoco ed un getto di vapore. Qualcosa di scuro, apparentemente il missile stesso, ancora intatto e gettato in aria dall'esplosione che aveva causato, balzò nel cielo solo per ricadere ancora, questa volta fra le due barche che c'inseguivano. Seguì una nuova esplosione, un po' meno intensa della prima, ed una della barche fu quasi sommersa, mentre l'altra si allontanava virando. Seguirono una terza ed una quarta esplosione, ma il proiettile, quali che fossero gli altri suoi poteri, sembrava incapace di seguire le barche nel modo in cui le notule di Hethor avevano invece seguito Jonas e me. Ogni esplosione lo portava più lontano, e, dopo la quarta, esso parve scarico. Le due barche si portarono fuori tiro, ma io ammirai comunque il loro coraggio nel proseguire ugualmente l'inseguimento.
— I proiettili di potere fanno scaturire il fuoco dall'acqua — mi disse Pia.
— Ho visto — annuii, mentre cercavo di raccogliere le gambe sotto di me e di trovare un appoggio sicuro nell'ammasso di canne.
Non è affatto difficile nuotare con le mani legate, anche dietro la schiena.... Drotte, Roche, Eata ed io eravamo soliti allenarci a nuotare con i pollici stretti dietro la schiena. Con le mani legate davanti a me, sapevo che sarei riuscito a stare a galla anche per parecchio tempo, se necessario, ma ero preoccupato per Pia, e le dissi di portarsi quanto più possibile a prua.
— Ma allora non potrò riuscire a slegarti.
— Non ci riuscirai mai mentre ci stanno osservando — sussurrai. — Va' a prua. Se questa barca si dovesse spezzare, aggrappati ad un gruppo di canne: esse continueranno a galleggiare. Non discutere.
Gli uomini a prua non la fermarono, e Pia si arrestò solo quando ebbe raggiunto un cavo di canne intrecciate che segnava la fine della prua della barca. Trassi un profondo respiro e mi buttai fuori bordo.
Se lo avessi voluto, avrei potuto tuffarmi senza quasi sollevare un'onda, ma invece raccolsi le ginocchia contro il petto per schizzare il più possibile, e, grazie al peso dei miei stivali, affondai più di quanto mi sarebbe stato possibile se mi fossi spogliato per nuotare. Era quello il punto che mi aveva preoccupato. Quando l'arciere del capo villaggio aveva lanciato il proiettile, avevo visto che c'era stata una pausa ben netta prima dell'esplosione, ed io sapevo che, oltre ad aver inzuppato entrambi gli uomini, dovevo anche aver bagnato tutti i proiettili ancora disposti sullo straccio unto... ma non potevo sapere con certezza se sarebbero esplosi prima che io tornassi alla superficie.
L'acqua era fredda, e si fece sempre più gelida man mano che sprofondavo. Aperti gli occhi, vidi un meraviglioso color cobalto che si faceva sempre più cupo man mano che ruotava intorno a me. Provai l'impulso, dettato dal panico, di sfilarmi gli stivali, ma questo mi avrebbe fatto risalire troppo in fretta, quindi riempii invece la mia mente della meraviglia suscitata dai colori e del ricordo dei corpi indistruttibili che avevo visto costellare i mucchi di rifiuti intorno alle miniere di Saltus... cadaveri che sprofondavano per sempre nell'azzurro golfo del tempo.
Lentamente e senza sforzo, ruotai fino a riuscire a scorgere la carena marrone della barca del capo villaggio sospesa sopra di me. Per un momento, quella macchia marrone ed io sembrammo raggelati nelle nostre posizioni: io giacevo sotto di essa così come gli uomini morti giacciono sotto l'uccello da preda che, riempiendo le sue ali di vento, sembra librarsi appena al disotto delle stelle fisse.
Poi, con i polmoni che minacciavano di scoppiare, cominciai a risalire.
Come se fosse stato un segnale, udii allora la prima esplosione, un cupo e distante rombo. Nuotai verso l'alto come fanno le rane, udendo altre esplosioni, ciascuna apparentemente più acuta della precedente.
Quando la mia testa emerse dall'acqua, vidi che la poppa della barca si era aperta e che i fasci di canne si stavano sparpagliando come scope di paglia. Un'esplosione secondaria alla mia sinistra mi assordò per un attimo e mi coprì la faccia di schizzi che pungevano come grandine. L'arciere si stava dibattendo nell'acqua non molto lontano da me, ma il capo villaggio (che teneva ancora stretta, come notai con gioia, Terminus Est), Pia e gli altri erano aggrappati a quanto rimaneva della barca, che galleggiava ancora grazie alla resistenza delle canne, anche se la parte più bassa era immersa nelll'acqua. Cercai di spezzare con i denti le corde che mi legavano i polsi fino a quando due degli isolani mi aiutarono a salire sulla loro imbarcazione ed uno di essi tagliò i miei legami.
XXXI
IL POPOLO DEL LAGO
Pia ed io trascorremmo la notte su una delle isole galleggianti, dove io, che avevo amato tanto spesso Thecla quando era prigioniera ma non incatenata, amai Pia che era invece incatenata ma libera. In seguito, lei rimase distesa sul mio petto e pianse di gioia... non tanto, credo, per la gioia che potevo averle dato io, quanto per la gioia di essere libera, anche se la sua gente, gli isolani, che non possedevano altri metalli tranne quelli che ottenevano a mezzo di scambi o di razzie dal popolo della riva, non avevano gli attrezzi adatti a rimuovere le sue manette.
Ho sentito dire da uomini che hanno amato molte donne che alla fine essi erano arrivati a notare certe somiglianze fra alcune delle donne amate, ed allora per la prima volta scoprii che questo era vero, in base alla mia esperienza personale, perché il corpo sottile e la bocca avida di Pia mi rammentavano Dorcas. Ma era anche una cosa falsa, in una certa misura: Dorcas e Pia si somigliavano nell'amore così come talvolta si somigliano i volti di due sorelle, ma io non avrei mai confuso l'una con l'altra.
Quando ero arrivato sull'isola mi sentivo troppo stremato per apprezzare appieno la meraviglia che essa costituiva; poi era quasi calata la notte. Ancora oggi, tutto ciò che rammento è che la piccola barca venne tirata in secco e che andai in una capanna dove uno dei nostri salvatori accese un fuoco; là oliai Terminus Est, che gli isolani avevano preso al capo villaggio prigioniero e restituito a me. Ma, quando Urth girò nuovamente il suo volto verso il sole, fu un'esperienza meravigliosa stare in piedi, con una mano appoggiata all'aggraziato tronco di un salice e sentire tutta l'isola rollare sotto di me!
I nostri ospiti cucinarono un po' di pesce per colazione, e prima che avessimo finito, arrivò una barca che trasportava due isolani con altro pesce e radici vegetali di un tipo che non avevo mai assaggiato prima. Le facemmo arrostire sotto la cenere e le mangiammo ancora calde: il loro sapore somigliava più che ad ogni altra cosa a quello delle castagne.
Arrivarono altre tre barche, poi un'isola con quattro alberi e vele quadrate legate ai rami di ciascuna pianta che la facevano sembrare un'intera flottiglia, se vista in lontananza. Il capitano era un uomo anziano, e costituiva l'autorità più simile ad un capo che quegli isolani possedessero. Il suo nome era Llibio, e, quando Pia me lo presentò, lui mi abbracciò come i padri fanno con i figli, qualcosa che prima di allora nessuno aveva mai fatto con me.
Dopo quell'abbraccio, tutti gli altri, Pia inclusa, si allontanarono da noi per permetterci di parlare privatamente, se tenevamo bassa la voce... alcuni uomini entrarono nella capanna ed il resto (ora erano una decina in tutto) si recò verso il punto più lontano dell'isola.
— Ho sentito dire che tu sei un grande combattente, un uccisore di uomini — iniziò a dire Llibio.
Gli spiegai che ero effettivamente un uccisore di uomini, ma non grande.
— È così. Ogni uomo combatte in risposta... per uccidere altri, eppure la sua vittoria non viene dall'uccidere quegli altri, bensì dall'uccidere una certa parte di se stesso.
— Tu — replicai, per far vedere che avevo compreso, — devi aver ucciso tutte le parti peggiori del tuo essere. Il tuo popolo ti ama.
— Anche di questo non ci si deve fidare. — Llibio fece una pausa, fissando l'acqua. — Noi siamo poveri e pochi, e se il popolo avesse prestato ascolto ad un altro in questi anni... — Scosse il capo.
— Ho viaggiato in luoghi lontani, ed ho osservato che di solito i poveri hanno più saggezza e virtù dei ricchi.
— Sei gentile. — Llibio sorrise. — Ma il nostro popolo ha ora tanta saggezza e virtù che ne può morire. Non siamo mai stati numerosi, e molti di noi sono periti nell'inverno passato, quando l'acqua si è gelata.
— Non avevo pensato a quanto debba essere difficoltoso l'inverno per voi, che non avete né lana né pelli, ma, ora che me lo hai fatto notare, vedo che deve essere davvero duro.
— Noi ci spalmiamo di grasso, che aiuta molto — replicò il vecchio, scuotendo il capo, — e le foche ci forniscono mantelli migliori di quelli che possiede il popolo della riva. Ma quando viene il ghiaccio, le nostre isole non si possono muovere, e il popolo della riva non ha bisogno di barche per raggiungerle e così ci può assalire in forze. Ogni estate noi li combattiamo quando vengono a prendere il nostro pesce, ma ogni inverno essi ci uccidono, giungendo sul ghiaccio a catturare schiavi.
Pensai allora all'Artiglio, che il capo villaggio mi aveva preso per inviarlo al castello e dissi:
— Il popolo di terra obbedisce al padrone del castello. Forse, se faceste la pace con lui, egli impedirebbe loro di attaccarvi.
— Una volta, quando io ero giovane, queste contese provocavano un paio di morti all'anno. Poi è giunto il costruttore del castello. Conosci la storia? — Scossi il capo. — Lui è giunto dal sud, come te, a quanto mi dicono. Aveva molte cose che la gente della riva desiderava, come tessuti, argento e attrezzi ben forgiati. Sotto le sue direttive, essi costruirono il castello, ed erano i nonni e i padri di coloro che formano oggi il popolo della riva. Usarono gli attrezzi a vantaggio di quell'uomo, e lui, come aveva promesso, permise loro di tenerli dopo che ebbero terminato il lavoro, e donò loro molte altre cose. Mentre lavoravano ancora, il padre di mia madre andò dalla gente della riva e chiese se non si accorgevano che si stavano creando un padrone con le loro stesse mani, dato che il costruttore del castello avrebbe potuto fare loro tutto quello che voleva e poi ritirarsi dietro le forti mura che essi avevano costruito per lui, dove nessuno l'avrebbe potuto raggiungere. Essi risero del padre di mia madre, e risposero che erano molti, il che era vero, e che il costruttore del castello era uno soltanto, il che era altrettanto vero.
Gli chiesi se avesse mai visto quel costruttore, e, se sì, che aspetto avesse.
— Una volta — mi rispose. — Era in piedi su una roccia e parlava al popolo della riva mentre io passavo con la mia barca. Posso dirti che era un ometto, un uomo che, se tu fossi stato là, non sarebbe arrivato più in alto della tua spalla. Non era un tipo tale da ispirare terrore. — Llibio fece un'altra pausa, gli occhi vacui che non vedevano l'acqua del lago ma i tempi remoti del passato. — Eppure, il terrore arrivò. Il muro esterno era stato completato, e il popolo della riva era tornato a dedicarsi alla caccia, alle chiuse ed ai greggi. Poi, il più importante fra loro venne da noi e disse che avevamo rubato i loro animali ed i loro bambini e che ci avrebbero distrutti se non li avessimo restituiti.
Llibio mi fissò in volto e mi strinse la mano nella sua che era dura come il legno. Guardando lui, io vidi anche gli anni ormai svaniti. Essi dovevano essere apparsi già abbastanza cupi allora, anche se il futuro che avevano generato... quel futuro in cui io sedevo con lui, la spada in grembo, ad ascoltare la sua storia... era ancora più cupo di quanto Llibio avesse potuto a quel tempo immaginare. Eppure, in quegli anni c'era stata anche gioia per lui, perché era un uomo giovane e forte, e, sebbene ora non stesse pensando a questo, il ricordo era nei suoi occhi.
— Noi rispondemmo che non divoriamo bambini, che non avevamo bisogno di schiavi che pescassero per noi e che non avevamo pascoli per il bestiame. Già allora, essi dovevano sapere che non eravamo colpevoli, perché non mossero guerra contro di noi. Ma quando le nostre isole si avvicinavano alla riva, sentivamo le loro donne piangere nella notte.
«In quei tempi, il giorno dopo la luna piena era un giorno di mercato, nel quale quelli di noi che lo desideravano andavano a riva a comprare coltelli e sale. Quando giunse il successivo giorno di mercato, vedemmo che la gente della riva aveva scoperto dov'erano finiti i bambini ed il bestiame, e che tutti mormoravano fra loro. Allora chiedemmo perché non andavano al castello e non lo attaccavano, dato che erano molti, ma essi presero invece i nostri figli, ed uomini e donne di tutte le età, e li incatenarono fuori dalle porte del villaggio, in modo che la loro gente non venisse catturata... o addirittura li condussero fino alle porte del castello e li legarono ad esse.
Mi azzardai a chiedere da quanto tempo durasse la cosa.
— Da molti anni... da quando io ero giovane, come ti ho detto. Qualche volta, la gente della riva combatteva, ma più spesso non lo faceva. Due volte giunsero guerrieri dal sud, inviati dal popolo orgoglioso che vive nelle alte case sulle rive meridionali. Mentre essi erano qui, i combattimenti cessarono, ma non ho idea di cosa si disse all'interno del castello. Il costruttore, di cui ti ho parlato, non venne mai più visto da nessuno, una volta che il castello fu completato.
Llibio attese che io dicessi qualcosa. Io avevo la sensazione, come mi capitava spesso nel parlare con gente più anziana di me, che le parole che avevo udito e quelle che lui aveva pronunciato fossero differenti, che nel suo discorso vi fosse un carico di sottintesi, di allusioni e di implicazioni altrettanto invisibile per me quanto lo era il suo respiro, come se il Tempo fosse stato una sorta di candido spirito che si ergeva in mezzo a noi e cancellava con le sue lunghe maniche la maggior parte di quanto veniva detto prima che io avessi potuto udirlo.
— Forse è morto — azzardai infine.
— Un malvagio gigante abita ora là, ma nessuno lo ha mai visto.
— Eppure — replicai, reprimendo a stento un sorriso, — direi che la sua presenza dovrebbe costituire un forte deterrente nell'impedire alla gente della riva di attaccare il castello.
— Cinque anni fa, essi lo attaccarono di notte come gli insetti che invadono un cadavere: bruciarono il castello e uccisero tutti coloro che vi trovarono dentro.
— Allora continuano a farvi guerra per abitudine?
— Dopo lo scioglimento delle nevi, quest'anno — replicò Llibio, scuotendo il capo, — la gente del castello è tornata. Aveva le mani piene di doni... ricchezze e le strane armi che tu hai rivolto contro il popolo della riva. Ci sono anche altri che vanno là, ma noi del lago non sappiamo se vanno in veste di padroni o di servitori.
— Vengono dal nord o dal sud?
— Vengono dal cielo — replicò Llibio, indicando là dove brillavano debolmente le stelle, sbiadite dalla maestà del sole, ma io pensai soltanto che intendesse dire che i visitatori erano giunti a bordo di velivoli e non chiesi altro.
Durante tutto il giorno, la gente del lago continuò ad affluire. Molti erano a bordo di barche come quella che aveva seguito il capo villaggio; ma altri scelsero di far navigare le loro isole fino a portarle vicino a quella di Llibio, cosicché ci trovammo come in mezzo ad un continente galleggiante. Non mi fu mai chiesto direttamente di guidarli contro la gente del castello, eppure, man mano che il giorno passava, cominciai a rendermi conto che questo era il loro desiderio ed essi cominciarono a capire che li avrei guidati. Nei libri, credo, queste cose avvengono convenzionalmente, per mezzo di fieri discorsi, ma la realtà delle cose talvolta è differente. Essi ammiravano la mia alta statura e la mia spada, e Pia aveva detto loro che ero un rappresentante dell'Autarca e che ero stato inviato a liberarli.
— Anche se siamo noi quelli che soffrono maggiormente — mi disse Llibio, — il popolo della riva è riuscito ad impossessarsi del castello. Sono più forti di noi in guerra, ma non tutto quello che hanno bruciato è stato ricostruito, ed essi non avevano un capo venuto dal sud.
Interrogai sia lui che gli altri in merito alle terre circostanti il castello, e spiegai che non avremmo attaccato fino a che la notte avesse reso difficile per le sentinelle scorgere il nostro avvicinarsi. Anche se non lo dissi, volevo attendere l'oscurità perché questo rendeva impossibile sparare con precisione; se il padrone del castello aveva dato al capo villaggio i proiettili del potere, mi sembrava probabile che avesse conservato per sé armi molto più efficaci.
Quando salpammo, ero alla testa di circa un centinaio di guerrieri, anche se la maggior parte di loro era armata di lance con la punta d'osso di foca, oppure di pachos o coltelli. Farebbe bene alla stima di me stesso se adesso scrivessi che avevo acconsentito a guidare quel piccolo esercito perché mosso da un senso di responsabilità e di preoccupazione per la loro situazione, ma non sarebbe vero. Né lo feci perché temessi quello che avrebbero potuto farmi se avessi rifiutato, anche se sospetto che, a meno di ricorrere ad un'elevata dose di diplomazia, fingendo di ritardare o di scorgere un qualche beneficio per gli isolani nel non combattere, mi sarei potuto trovare in una situazione davvero brutta.
La verità è che ero sottoposto ad una forza coercitiva maggiore di qualsiasi pressione da parte loro. Llibio portava intorno al collo un pesce intagliato in un dente, e, quando gli avevo chiesto cosa fosse, aveva risposto che era Oannes, e lo aveva coperto con la mano in modo che i miei occhi non lo potessero profanare, poiché lui sapeva bene che io non credevo in Oannes, che doveva certo essere il pesce-divinità di quel popolo.
In effetti, io non credevo in lui, eppure sentivo di sapere su Oannes tutto ciò che importava sapere. Sapevo che viveva nelle oscure profondità del lago, ma che lo si poteva veder balzare sulle onde durante le tempeste. Sapevo che era il pastore del profondo, che riempiva le reti degli isolani di pesce, e che gli assassini non potevano solcare le acque senza timore, perché Oannes sarebbe apparso accanto alla loro barca con occhi grandi come lune, e l'avrebbe fatta rovesciare.
Io non credevo in Oannes e non lo temevo, ma pensavo di sapere da dove venisse... sapevo che nell'universo esiste un potere che pervade tutto e che rispetto ad esso ogni altro potere è ombra. Sapevo che, in ultima analisi, la mia concezione di quel potere era altrettanto ridicola (ed altrettanto seria) quanto quella di Oannes. Sapevo che l'Artiglio gli apparteneva, e sentivo che era solo dell'Artiglio che sapevo queste cose, solo dell'Artiglio fra tutti gli altari ed i paramenti del mondo. Lo avevo tenuto in mano innumerevoli volte, lo avevo sollevato sulla mia testa nel Vincula, avevo toccato con esso l'ulano dell'Autarca e la ragazza malata nello jacal di Thrax. Avevo tenuto in mano l'infinito ed avevo maneggiato il suo potere; non ero più certo che sarei riuscito a consegnarlo remissivamente alle Pellegrine, se mai le avessi rintracciate, ma sapevo con certezza che non lo avrei ceduto remissivamente a nessun altro.
Per di più, mi sembrava in un certo modo di essere stato prescelto per detenere, sia pure per breve tempo, quel potere. Le Pellegrine lo avevano perduto a causa della mia irresponsabilità nel permettere ad Agia di incitare il nostro cocchiere a gareggiare, e quindi era divenuto mio dovere averne cura, usarlo e forse restituirlo. Ed era certo mio dovere recuperarlo dalle mani, mani mostruose a quanto pareva, in cui era adesso caduto a causa della mia incuria.
Prima di cominciare questo resoconto della mia vita, non avevo intenzione di rivelare alcuno dei segreti della nostra corporazione che mi furono svelati dal Maestro Palaemon e dal Maestro Gurloes appena prima che venissi elevato, il giorno della festa di Santa Katharine, al rango di artigiano. Ma ne rivelerò uno ora, poiché ciò che feci quella notte sul Lago Diuturna non può essere compreso se non si conosce questo segreto. E tale segreto è solo che noi torturatori obbediamo. In tutto l'elevato ordine del corpo politico, quella piramide di vite che è immensamente più alta di qualsiasi torre materiale, più alta del Forte della Campana, più alta del Muro di Nessus, più alta del Monte Typhon, quella piramide che si estende dall'Autarca sul suo Trono della Fenice al più umile impiegato che sgobba per il più disonorato commerciante... una creatura più infima del più infimo mendicante... noi siamo l'unica pietra solida. Nessuno obbedisce realmente se non è pronto a fare l'inimmaginabile per obbedire; nessuno è disposto a fare l'inimmaginabile tranne noi.
Come potevo rifiutare all'Increato ciò che avevo spontaneamente dato all'Autarca quando avevo decapitato Santa Katharine?
XXXII
AL CASTELLO
Le rimanenti isole erano adesso separate, e, sebbene le barche si muovessero in mezzo a loro e su ogni ramo ci fossero vele gonfie di vento, non potevo fare a meno di provare la sensazione che fossimo immobili sotto le nubi e che il nostro moto fosse solo l'ultima illusione di una terra che stava sprofondando.
Molte delle isole fluttuanti che avevo visto in precedenza quel giorno erano state lasciate indietro come rifugio per le donne ed i bambini. Ne rimanevano una mezza dozzina, ed io mi trovavo sul punto più alto di quella di Llibio, che era la più grande delle sei. Oltre al vecchio ed a me, l'isola trasportava sette combattenti, mentre le altre ne portavano quattro o cinque ciascuna. In aggiunta alle isole, c'erano circa trenta barche, ciascuna equipaggiata con due o tre uomini.
Non volevo ingannarmi con il pensiero che i nostri cento uomini, con i coltelli e le lance da pesca costituissero una forza formidabile. Una sola manciata dei dimarchi di Abdiesus li avrebbe sparpagliati come paglia. Ma essi erano miei seguaci, e quello di guidare uomini in battaglia è un sentimento che non ha uguali.
Non un bagliore splendeva sulle acque del lago, fatta eccezione per la luce riflessa che cadeva dalla miriade di foglie della Foresta della Luna, a cinquantamila leghe di distanza. Quelle acque mi facevano pensare all'acciaio, oliato e lucidato. Il vento era debole e non creava spuma, anche se le sospingeva in lunghe onde simili a colline di metallo. Dopo qualche tempo, una nube oscurò la luna, ed io mi chiesi se la gente del lago al buio avrebbe perso l'orientamento. Tuttavia, per il modo in cui maneggiavano le imbarcazioni, avrebbe potuto essere anche mezzogiorno, e, sebbene barche ed isole venissero spesso a trovarsi vicine, in tutto il viaggio non ne vidi mai due che corressero anche il minimo pericolo di una collisione.
L'essere trasportato in quel modo, nel mezzo del mio arcipelago, senza altro suono tranne il sussurro del vento ed il battito dei remi che affondavano e si sollevavano con la regolarità di un orologio, senza che si percepisse altro movimento a parte il gentile dondolio delle onde, avrebbe potuto essere una cosa rilassante o addirittura soporifica, perché ero stanco, anche se avevo dormito un poco prima della partenza, ma il freddo dell'aria notturna ed il pensiero di ciò cui stavamo andando incontro mi tenevano ben sveglio.
Né Llibio né alcuno degli isolani era stato in grado di darmi altro se non vaghissime informazioni in merito all'interno del castello che stavamo per assalire. Non avevo idea se l'edificio principale fosse o meno una vera fortezza, e cioè una torre fortificata abbastanza alta da permettere di vedere al di là del muro di cinta, e non sapevo neppure se c'erano altri edifici in aggiunta al primo (un barbacane, per esempio), o se il muro fosse rinforzato da torrette o quanti difensori potevano esservi. Il castello era stato costruito nell'arco di due o tre anni da mano d'opera nativa, quindi non poteva essere formidabile, diciamo, come il Castello di Acies; ma un luogo che avesse avuto anche solo un quarto della sua solidità sarebbe stato inespugnabile per noi.
Ero acutamente consapevole di quanto poco adatto fossi a guidare una simile spedizione: non avevo mai neppure visto una battaglia, e tanto meno partecipato ad una. La mia conoscenza dell'architettura militare veniva dall'essere cresciuto nella Cittadella e da qualche casuale occhiata data alle fortificazioni di Thrax, e quello che sapevo di tattica, o che pensavo di sapere, derivava da letture altrettanto casuali. Ricordavo ora di aver giocato da ragazzo nella necropoli, combattendo finte schermaglie con bastoni di legno, e quel pensiero mi fece sentire male. Non era perché temessi per la mia vita, ma perché sapevo che un errore da parte mia avrebbe potuto causare la morte della maggior parte di quegli uomini innocenti ed ignoranti che guardavano a me per avere una guida.
La luna tornò a splendere brevemente, attraversata dalle sagome scure di uno stormo di cicogne, ed io potei scorgere la riva, una fascia di notte più fitta, all'orizzonte. Una nuova massa di nubi coprì la luna ed una goccia d'acqua mi cadde sulla faccia. Questo mi fece improvvisamente sentire felice, senza che ne sapessi il perché... senza dubbio rammentavo inconsciamente la notte in cui avevo combattuto contro l'alzabo. Forse stavo pensando anche alle acque gelide che si riversavano fuori dalla bocca della caverna degli uomini-scimmia.
Eppure, accantonando tutte queste fortuite associazioni, la pioggia poteva in effetti rivelarsi una benedizione. Noi non avevamo archi, e se la pioggia avesse bagnato le corde degli archi dei nostri nemici, tanto di guadagnato. Certo, sarebbe stato impossibile usare i proiettili del potere cui aveva fatto ricorso l'arciere del capo villaggio; inoltre la pioggia avrebbe favorito un attacco di sorpresa, ed io avevo già da tempo deciso che il nostro attacco poteva avere qualche speranza di successo solo se fosse stato condotto furtivamente e di sorpresa.
Ero immerso nei miei piani, quando le nubi si aprirono di nuovo e vidi che ci stavamo muovendo parallelamente alla riva, che si ergeva alla nostra destra in una serie di alture. Più avanti, una penisola di roccia ancora più alta sporgeva nel lago, ed io camminai fino alla punta dell'isola per chiedere all'uomo appostato là se il castello fosse situato su di essa.
— La dobbiamo aggirare — mi rispose, scuotendo il capo.
E così facemmo. Le corde delle vele furono sciolte e legate ad altri rami. Pesi formati da pietre vennero calati in acqua da una parte dell'isola, mentre tre uomini lottavano con la barra per far girare il timone. Rimasi colpito dal pensiero che Llibio doveva aver ordinato il nostro attuale avvicinamento a riva saggiamente, in modo da evitare che potessimo essere avvistati da chiunque tenesse d'occhio le acque del lago. Se le cose stavano così, avremmo ancora corso questo pericolo quando non avessimo più avuto la penisola fra il castello e la nostra piccola flotta. Pensai anche che, dal momento che il costruttore del castello non lo aveva fatto erigere sullo sperone di roccia che ora stavamo costeggiando, e che appariva decisamente inespugnabile, ciò significava che doveva aver trovato un luogo ancora più sicuro di quello.
Poi aggirammo la punta, ed avvistammo la nostra meta, a non più di quattro catene di distanza, lungo la costa... una sporgenza rocciosa ancora più alta ed a picco, con un muro alla sommità ed una fortezza che sembrava avere la forma impossibile di un immenso fungo velenoso.
Non potevo credere ai miei occhi. Dalla grande colonna centrale che non dubitavo fosse una torre rotonda di pietra grezza, si levava una struttura di metallo a forma di lente pari a dieci volte il suo diametro ed apparentemente solida quanto la torre stessa.
Tutt'intorno alla nostra isola, gli uomini nelle barche e sulle altre isole stavano sussurrando fra loro ed indicando: sembrava che quella vista incredibile riuscisse altrettanto nuova a loro come a me.
La velata luce lunare, il bacio della sorella più giovane sul volto della morente sorella anziana, brillava sulla superficie superiore di quell'immane disco. Al disotto di esso, nella fitta ombra, brillavano scintille di luce arancione. Esse si muovevano, scivolando in alto o in basso, ma il loro moto era talmente lento che le stavo già osservando da parecchio prima di accorgermene. Alla fine, una luce si levò sino a sembrare sospesa immediatamente al disotto del disco e svanì, e, poco prima che noi approdassimo, altre due luci apparvero nello stesso punto.
Una piccola spiaggia giaceva all'ombra della rupe, ma l'isola di Llibio si arenò in secco prima che la raggiungessimo, ed io dovetti saltare di nuovo nell'acqua, questa volta tenendo Terminus Est alta sulla testa. Per fortuna non c'erano scogli, e, sebbene minacciasse sempre di piovere, ancora non aveva cominciato a gocciolare. Aiutai alcuni degli uomini del lago a tirare in secco le barche, mentre altri ancoravano le isole ad alcuni massi.
Dopo il mio viaggio fra le montagne, il breve sentiero, stretto e pericoloso, mi sarebbe parso facile se non fossi stato costretto a salirlo al buio. Così come stavano le cose, avrei preferito rifare la discesa che rasentava la città sepolta ed arrivava alla casa di Casdoe, anche se quella era cinque volte più lunga.
Quando raggiungemmo la cima, eravamo ancora ad una certa distanza dal muro, da cui eravamo separati da una fila di abeti. Radunai gli isolani intorno a me e chiesi loro... una domanda retorica... se sapessero da dove veniva l'astronave sospesa sul castello. Quando essi mi risposero di no, li informai che io invece lo sapevo (il che era vero, perché Dorcas mi aveva messo in guardia contro simili incontri, anche se non avevo mai visto in precedenza nulla di simile), ed aggiunsi che, a causa della presenza di quell'oggetto, sarebbe stato meglio se io fossi andato in avanscoperta per esaminare la situazione, prima di procedere all'assalto.
Nessuno parlò, ma potevo percepire la loro impotenza: essi avevano creduto di aver trovato un eroe che li avrebbe guidati, ed ora stavano per perderlo ancora prima dell'inizio della battaglia.
— Intendo entrare, se potrò — spiegai. — Tornerò qui se ci riuscirò, e lascerò aperte per voi tutte le porte possibili.
— Ma supponiamo che tu non possa tornare — intervenne Llibio. — Come faremo a sapere quando sarà giunto il momento di snudare i coltelli?
— Manderò un segnale — replicai, e mi spremetti le meningi per cercare di trovare un segnale da fare nel caso fossi rimasto bloccato all'interno di quella cupa torre. — Devono avere qualche fuoco acceso, in una notte come questa. Agiterò un tizzone davanti alla finestra, e, se potrò, lo farò cadere, in modo che voi possiate vedere la striscia di fuoco. Se non manderò alcun segnale e non potrò tornare da voi, significherà che sono stato fatto prigioniero... allora attaccate quando sulle montagne apparirà la prima luce dell'alba.
Poco tempo dopo, ero fermo davanti alla porta del castello, intento a picchiare il grosso batacchio a forma di testa umana (stando a quanto mi dicevano le mie dita) contro una piastra di ferro incastrata nella quercia.
Non ottenni risposta, e, dopo aver atteso per lo spazio di una ventina di respiri, bussai ancora. Potevo sentire gli echi destati all'interno, un vuoto rintronare simile al battito di un cuore, ma non ci fu alcun suono di voci. La mia mente si riempì delle immagini dei volti orrendi che avevo scorto nel giardino dell'Autarca, ed attesi con timore il rumore di uno sparo, anche se sapevo che, se gli Hieroduli avessero deciso di spararmi... e tutte le armi ad energia venivano da loro... non avrei probabilmente sentito nulla. L'aria era così immota da dar l'impressione che stesse attendendo insieme a me. Un tuono risuonò ad est.
Alla fine si sentirono alcuni passi, tanto rapidi e leggeri che li avrei scambiati per quelli di un bambino. Una voce vagamente familiare chiese:
— Chi c'è? Che cosa vuoi?
— Sono il Maestro Severian — risposi, — dell'Ordine dei Ricercatori della Verità e della Penitenza... Vengo in qualità di braccio dell'Autarca, la cui giustizia è il pane dei suoi sudditi.
— Hai proprio ragione! — esclamò il Dr. Talos, e spalancò la porta. Per un momento, non riuscii a fare altro che fissarlo. — Dimmi, cosa vuole da noi l'Autarca? L'ultima volta che ti ho visto, eri in viaggio per la Città dei Coltelli Ricurvi. Ci sei mai arrivato?
— L'Autarca desiderava sapere perché i tuoi vassalli hanno messo le mani addosso ad uno dei suoi servitori — replicai, — cioè addosso a me. Questo getta una luce vagamente diversa sulla faccenda.
— È vero! È vero! Anche dal nostro punto di vista, devi capirlo. Non sapevo che eri tu il misterioso visitatore giunto a Murene. E sono sicuro che non lo sapeva neppure il povero Baldanders. Vieni, e ne parleremo.
Attraversai l'arcata aperta nel muro ed il dottore richiuse il pesante portale alle mie spalle, facendo scorrere la sbarra di ferro.
— In verità non c'è molto di cui parlare — dissi, — ma potremmo cominciare con quella gemma di valore che mi è stata presa con la forza e che, a quanto mi è stato detto, è stata inviata a voi.
Mentre parlavo, tuttavia, la mia attenzione era lontana dalle parole che stavo pronunciando, attratta com'era dalla massa della nave degli Hieroduli, che si trovava esattamente sopra di me, ora che avevo superato il muro. Tenere lo sguardo sollevato verso di essa mi dava quella sensazione di dislocazione che ho talvolta avvertito nel guardare attraverso la doppia curva di una lente d'ingrandimento; il lato inferiore, convesso, della nave aliena aveva un che di estraneo non solo al mondo degli esseri umani, ma a tutto il mondo visibile.
— Oh, sì — replicò il Dr. Talos. — Baldanders ha il tuo ninnolo, credo. O almeno, lo aveva e lo ha messo da qualche parte. Sono sicuro che te lo restituirà.
Dall'interno della torre rotonda che sembrava sostenere la nave (anche se una cosa del genere sarebbe stata materialmente impossibile) provenne, debole, un solitario e terribile suono che avrebbe potuto essere l'ululato di un lupo. Non avevo più udito nulla del genere da quando avevo lasciato la nostra Torre di Matachin, ma sapevo cos'era e dissi al Dr. Talos:
— Avete dei prigionieri, là dentro.
— Sì — annuì. — Temo che oggi siamo stati troppo occupati per ricordarci di nutrire quelle povere creature, con tutto ciò che è successo. — Agitò vagamente una mano in direzione della sovrastante nave. — Non avrai obiezioni ad incontrarti con alcuni cacogeni, spero, Severian? Se vuoi andare dentro e chiedere a Baldanders di restituirti il tuo gioiello, temo che li dovrai incontrare. Lui è là dentro che parla con loro.
Dissi che non avevo obiezioni, anche se temo di aver rabbrividito interiormente nel dirlo.
Il dottore sorrise, mostrando al disopra della barba rossa la fila di denti candidi ed appuntiti che rammentavo così bene.
— È meraviglioso. Sei sempre stato una persona meravigliosamente priva di pregiudizi. Se posso dirlo, suppongo che il tuo addestramento ti abbia insegnato ad accettare ogni essere per quello che è.
XXXIII
OSSIPAGO, BARBATUS E FAMULIMUS
Come è comune in simili torri, non c'era un ingresso al livello del suolo. Una scala stretta, diritta, ripida e senza ringhiera conduceva ad una porta altrettanto stretta, situata a circa dieci cubiti di altezza al disopra della pavimentazione del cortile. Quella porta era aperta, e fui felice di notare che il Dr. Talos non la richiudeva alle nostre spalle. Percorremmo un breve corridoio, che equivaleva indubbiamente allo spessore della parete, e sbucammo in una stanza che sembrava occupare (come tutte le camere che vidi all'interno di quella torre) tutto lo spazio disponibile a quel livello. Essa era piena di macchinari che mi parvero almeno altrettanto antichi quanto quelli che avevamo nella Torre di Matachin, ma il cui uso andava al di là della mia capacità d'immaginazione. Su un lato di quella stanza, un'altra scala stretta saliva al piano superiore, e, dalla parte opposta, un'oscura scala scendeva verso il luogo, quale che fosse, in cui era rinchiuso il prigioniero che avevo sentito urlare poco prima: infatti sentii ancora la sua voce emergere dall'oscurità sottostante.
— È impazzito — commentai, reclinando la testa in direzione del suono.
— La maggior parte lo sono — annuì il Dr. Talos. — Per lo meno, la maggior parte di quelli che ho esaminato. Somministro loro decotti di elleboro, ma non posso dire che servano a molto.
— Avevamo alcuni clienti come quelli al terzo livello della nostra segreta, perché eravamo costretti a detenerli per via di cavilli legali. Essi erano stati consegnati a noi, capisci, e nessuno che ne avesse l'autorità era disposto ad autorizzare il loro rilascio.
— Simpatizzo con il vostro problema. — Il dottore mi stava guidando verso la scala che saliva.
— Con il tempo, morivano — continuai cocciutamente, — o per le conseguenze delle torture subite o per altre cause. Non si otteneva alcuno scopo valido nel tenerli imprigionati.
— Suppongo di no. Sta' attento a quell'aggeggio con l'uncino: sta cercando di agganciarti il mantello.
— Perché lo tenete rinchiuso? Non avete obblighi legali nel senso in cui li avevamo noi, ne sono certo.
— Per restare nella parte, suppongo. È per questo che Baldanders conserva la maggior parte di questi aggeggi. — Il Dr. Talos si volse a guardarmi, un piede sul primo scalino. — Adesso ricordati di comportarti bene. Non amano essere chiamati cacogeni, sai. Rivolgiti loro usando i nomi che diranno di avere questa volta, e non fare riferimenti al fango, anzi, in effetti, sarà meglio che tu non parli di nulla di spiacevole. Il povero Baldanders ha lavorato così duramente per rimediare e far la pace con loro dopo aver perso la testa nella Casa Assoluta! Sarà annientato se tu dovessi rovinare tutto proprio quando loro stanno per partire.
Promisi che sarei stato il più diplomatico possibile.
Dal momento che la nave si librava sulla torre, avevo supposto che Baldanders ed i comandanti della nave si trovassero all'ultimo livello, ma mi ero sbagliato. Mentre salivamo al piano successivo udii un mormorio di voci e poi il suono di quella del gigante che mi fece pensare, come mi era accaduto spesso quando viaggiavamo insieme, al crollo di un lontano muro in rovina.
Anche quella stanza conteneva macchinari, ma questi, anche se apparivano altrettanto vecchi quanto quelli al piano di sotto, sembravano però funzionanti ed inoltre collegati, in base a qualche logica ma incomprensibile relazione, gli uni con gli altri, come i congegni nella sala di Typhon. Baldanders ed i suoi ospiti si trovavano all'estremità più lontana della camera, dove la testa del gigante, tre volte più grossa di quella di un uomo normale, si ergeva al disopra dell'ammasso di metallo e cristallo come quella di un tirannosauro che sbucasse dalle più alte foglie di una foresta. Mentre avanzavo verso di loro, notai quel che rimaneva di una giovane donna che avrebbe potuto essere una sorella di Pia, e che giaceva sotto una campana lucente. Il suo addome era stato aperto con una lama tagliente ed alcuni dei suoi visceri rimossi e disposti intorno al suo corpo che sembrava essere nel primo stadio di decomposizione, anche se le labbra si muovevano. I suoi occhi si aprirono mentre le passavo accanto, poi si richiusero.
— Abbiamo compagnia! — annunciò il Dr. Talos. — Non immaginerai mai chi è!
La testa del gigante si volse lentamente, ma mi fissò senza dar mostra di capire, come aveva fatto quando il Dr. Talos lo aveva svegliato, quella prima mattina, a Nessus.
— Conosci già Baldanders — continuò il dottore, rivolto a me, — ma ti devo presentare gli altri ospiti.
Tre uomini, o esseri che almeno sembravano tali, si alzarono con moti aggraziati. Uno di loro, se fosse veramente stato un essere umano, sarebbe stato basso e tozzo. Gli altri due erano parecchio più alti di me, alti come esultanti. Le maschere che tutti e tre portavano davano loro l'aspetto di raffinati uomini di mezz'età, pensosi e posati, ma io ero conscio del fatto che gli occhi che mi fissavano attraverso le fessure delle maschere dei due più alti erano più grandi degli occhi umani, ed anche del fatto che l'essere più tozzo non aveva affatto gli occhi, per cui dietro la sua maschera si vedeva solo oscurità. Tutti e tre erano vestiti di bianco.
— Onorevoli! Questo è un nostro grande amico, il Maestro Severian dei torturatori. Maestro Severian, permettimi di presentarti gli onorevoli Hieroduli Ossipago, Barbatus e Famulimus. Il compito di questi nobili personaggi è quello d'inculcare la saggezza nella razza umana... qui rappresentata da Baldanders ed ora anche da te stesso.
L'essere che il Dr. Talos aveva presentato come Famulimus parlò. La sua voce avrebbe potuto essere senz'altro umana se non fosse stato per la maggiore risonanza e musicalità, superiori a quelle di qualsiasi voce umana avessi mai udito, e tali da darmi l'impressione di ascoltare il discorso di qualche strumento a corda animatosi di vita propria.
— Benvenuto — intonò la voce. — Per noi non c'è gioia più grande che incontrarti, Severian. Tu ti sei cortesemente inchinato davanti a noi, ma dinnanzi a te noi piegheremo le ginocchia. — E s'inginocchiò brevemente, come fecero anche gli altri.
Nulla di ciò che quell'essere avrebbe potuto dire o fare mi avrebbe potuto stupire maggiormente, e venni colto troppo di sorpresa per riuscire a rispondere.
L'altro cacogeno alto, Barbatus, parlò come avrebbe potuto fare un cortigiano, per riempire il silenzio di un vuoto nella conversazione che sarebbe altrimenti stato imbarazzante. La sua voce era più profonda di quella di Famulimus, e sembrava avere in sé una nota militare.
— Tu sei il benvenuto qui... decisamente benvenuto, come ha detto il mio caro amico e come tutti noi abbiamo tentato di manifestare. Ma i tuoi amici devono rimanere all'esterno, fintanto che noi saremo qui. Naturalmente, tu lo sai già. L'ho detto solo per una questione di formalità.
Il terzo cacogeno, con voce tanto profonda che la si percepiva più che udirla, mormorò che non aveva importanza, e, come se temesse che io potessi scorgere le fessure vuote della sua maschera, si volse e finse di osservare qualcosa fuori dalla stretta finestra alle sue spalle.
— Allora forse non importa — osservò Barbatus. — Dopo tutto, Ossipago è quello che ne sa di più.
— Allora hai amici qui? — sussurrò il Dr. Talos. Era una sua caratteristica il fatto che raramente parlava ad un gruppo, come fa la maggior parte delle persone, ma si rivolgeva invece al singolo individuo come se fossero soli, oppure declamava come se si trovasse davanti ad un'assemblea di migliaia di persone.
— Alcuni isolani mi hanno scortato qui — risposi, tentando di affrontare la cosa meglio che potevo. — Devi sapere della loro esistenza. Vivono su masse fluttuanti di canne, nel lago.
— Stanno insorgendo contro di te! — Il Dr. Talos si rivolse al gigante. — Ti avevo avvertito che sarebbe accaduto. — Si precipitò alla finestra dalla quale l'essere chiamato Ossipago sembrava intento a guardare e, spintolo da un lato, scrutò fuori nella notte. Quindi, voltosi verso il cacogeno, s'inginocchiò, gli afferrò la mano e la baciò. Quella mano era chiaramente un guanto di un qualche materiale flessibile, pitturato per sembrare carne e contenente qualcosa che non era certo una mano.
— Ci aiuterai, Onorevole, vero? Hai certo fantassini a bordo della tua nave. Allinea, per una volta, esseri orrendi sulle mura, ed esse rimarranno al sicuro per un secolo.
— Severian sarà il vincitore — intervenne Baldanders con la sua voce lenta. — Altrimenti, perché si sarebbero inginocchiati dinnanzi a lui? Anche se può darsi che lui muoia e noi no. Conosci i loro metodi, dottore. Il saccheggio potrebbe disseminare il sapere.
— Lo ha mai fatto prima? Dimmi! — Il Dr. Talos si volse furiosamente contro di lui.
— Chi lo può dire, Dottore?
— Sai che non lo ha mai fatto. Essi sono gli stessi ignoranti, superstiziosi bruti che sono sempre stati! — Si volse di nuovo. — Nobili Hieroduli, rispondetemi! Se qualcuno lo sa, quelli siete voi!
Famulimus fece un gesto, e non fui mai tanto consapevole della verità dietro la sua maschera come in quel momento, perché nessun braccio umano avrebbe mai potuto fare un movimento del genere, che inoltre era privo di significato e non indicava né consenso né dissenso, né irritazione né consolazione.
— Io non parlerò di tutte le cose che tu sai — rispose. — E cioè che coloro che temi hanno imparato a sopraffarti. Può essere vero che essi siano ancora semplici di mente; eppure, qualcosa portato nelle loro case li può rendere saggi.
Si stava rivolgendo al dottore, ma io non riuscii a contenermi più a lungo e chiesi:
— Posso domandarti di cosa stai parlando, sieur?
— Parlo di voi, di tutti voi, Severian. Il fatto che io parli non ti può danneggiare ora.
— Solo se non lo fai troppo liberamente — intervenne Barbatus. — C'è un marchio usato su un qualche mondo, dove talvolta la nostra consunta nave trova infine riposo. È il segno di un serpente con una testa a ciascuna estremità del corpo. Una testa è morta... l'altra la divora.
— Si tratta di questo mondo, credo — osservò Ossipago, senza allontanarsi dalla finestra.
— Senza dubbio, Camoena potrebbe rivelare quale sia la sua casa. Ma del resto, non ha importanza se lo sai o meno. Mi comprenderai ancora più chiaramente. La testa viva indica la distruzione. La testa che non vive indica il costruire. La prima si nutre della seconda, e, nutrendosi, nutre il suo cibo. Un bambino potrebbe pensare che, se la prima morisse, la testa morta e costruttiva trionferebbe, rendendo la sua gemella simile a sé. La verità è che entrambe si decomporrebbero presto.
— Spesso — commentò Barbatus, — il mio caro amico è men che chiaro. Riesci a seguirlo?
— Io no! — annunciò irosamente il Dr. Talos, e, giratosi con fare disgustato, si precipitò giù per la scala.
— Non ha importanza — mi disse Barbatus, — dal momento che il suo padrone ha capito. — Fece una pausa, come per dar modo a Baldanders di contraddirlo, poi riprese, sempre rivolgendosi a me: — Il nostro desiderio, vedi, è quello di far progredire la vostra razza, non d'indottrinarla.
— Far progredire il popolo della spiaggia? — chiesi.
Durante tutto quel tempo, le acque del lago avevano fatto salire fino a noi, attraverso la finestra, il loro lamento notturno, e la voce di Ossipago parve fondersi con esso mentre diceva:
— Tutti voi...
— Allora è vero, quello che così tanti saggi hanno sospettato! Siamo soggetti ad una guida! Voi ci osservate, e, durante i secoli della nostra storia, che a voi devono essere parsi meno che giorni, ci avete fatti uscire dalla condizione di selvaggi. — Nel mio entusiasmo, tirai fuori il libro marrone, ancora umido per il bagno cui lo avevo sottoposto precedentemente in quella giornata, nonostante fosse avvolto in pelle oliata. — Ecco, permettetemi di mostrarvi quello che dice qui: «L'uomo, che non è saggio, è pur sempre oggetto di saggezza. Se la saggezza trova in lui un oggetto degno, è saggio da parte sua illuminare la sua follia?» Qualcosa del genere.
— Ti sbagli — mi disse Barbatus. — Le vostre ere sono eoni per noi. Il mio amico ed io ci occupiamo della vostra razza da un tempo inferiore alla durata della tua vita.
— Queste cose vivono solo una ventina di anni, come i cani — intervenne Baldanders. Il suo tono mi disse molto più di quanto sia scritto qui, perché ogni parola cadde come una pietra gettata in una profonda cisterna.
— Non può essere — obiettai.
— Voi siete il lavoro per cui noi viviamo — spiegò Famulimus. — Quell'uomo che tu chiami Baldanders vive per imparare. Noi provvediamo affinché lui riesca a raccogliere materiale del passato... duri fatti, come semi per dargli potere. Con il tempo, lui morirà per mezzo di mani che non amano conservare, ma morirà con un leggero vantaggio per tutti voi. Pensa ad un albero che taglia una roccia. Esso raccoglie l'acqua, il calore solare che dà vita... e tutti gli elementi vitali per un suo uso. Con il tempo, esso muore e marcisce per nutrire la terra che le sue stesse radici hanno creato dalla pietra. Quando la sua ombra è svanita, nuovi semi germogliano, e, con il tempo, un'intera foresta sorge dove prima c'era quell'albero.
Il Dr. Talos emerse di nuovo dalle scale, battendo le mani in modo lento e derisorio.
— Allora avete lasciato voi qui queste macchine? — chiesi. Mentre parlavo, ero acutamente consapevole del fatto che la donna eviscerata stava mormorando qualcosa alle mie spalle sotto la sua campana di vetro, una cosa che un tempo non avrebbe minimamente disturbato il torturatore Severian.
— No — replicò Barbatus. — Quelle le ha trovate oppure le ha costruite per se stesso. Famulimus ha detto che lui desiderava imparare e che noi abbiamo provveduto a che lo facesse, non che gli abbiamo insegnato noi. Noi non insegnamo nulla a nessuno e cediamo solo quei congegni che sono troppo complessi perché il tuo popolo li possa duplicare.
— Questi mostri — disse il Dr. Talos, — questi orrori non fanno nulla per noi. Tu li hai visti... sai come sono. Quando il mio povero paziente è corso all'impazzata fra di loro, nel teatro della Casa Assoluta, lo hanno quasi ucciso con le loro pistole.
— Non c'è bisogno che tu finga simpatia, dottore. — Il gigante si spostò nella sua grande sedia. — Non ti si adatta. Fare il folle mentre loro mi guardavano... — Le sue immense spalle si sollevarono e ricaddero. — Non avrei dovuto permettere che mi sopraffacesse. Ed ora essi hanno convenuto di dimenticare il fatto.
— Quella notte — osservò Barbatus, — noi avremmo potuto facilmente uccidere il tuo creatore, come tu ben sai. Lo abbiamo bruciato appena quanto bastava per deviare la sua carica.
Rammentai allora quel che il gigante mi aveva detto quando ci eravamo separati nella foresta al di là dei giardini dell'Autarca... che era lui il padrone del dottore. Ora, prima di aver il tempo di riflettere su quel che stavo facendo, afferrai la mano di Talos: la pelle sembrava altrettanto calda e viva quanto la mia, ma era stranamente arida. Dopo un momento, il dottore la liberò.
— Cosa sei tu? — domandai, e, quando non mi rispose, mi rivolsi agli esseri che si facevano chiamare Famulimus e Barbatus. — Una volta, sieurs, ho conosciuto un uomo che era fatto solo parzialmente di carne umana...
Invece di rispondere, essi guardarono verso il gigante, e, sebbene sapessi che i loro volti erano solo maschere, percepii l'imperiosità della loro richiesta.
— Un homunculus — borbottò Baldanders.
XXXIV
MASCHERE
La pioggia prese a cadere mentre lui parlava, una pioggia fredda che colpiva le rozze pietre grige del castello con un milione di pugni gelidi. Sedetti, stringendo Terminus Est fra le ginocchia per impedire che mi tremassero.
— Avevo già concluso — dissi, con tutto l'autocontrollo che riuscii ad esercitare, — che quando parlavano di un uomo piccolo che aveva pagato per far costruire questo posto, gli isolani intendessero riferirsi al dottore. Ma essi hanno detto che tu, il gigante, sei venuto in seguito.
— Io ero l'uomo piccolo. Il dottore è venuto in seguito.
La gocciolante faccia da incubo di un cacogeno si affacciò per un istante alla finestra. Forse aveva portato un qualche messaggio ad Ossipago, anche se io non avevo udito nulla. Questi parlò senza voltarsi:
— La crescita ha i suoi svantaggi, anche se per la vostra specie è il solo metodo per mezzo del quale si possa ricreare la giovinezza.
— Avremo la meglio su di loro! — Il Dr. Talos balzò in piedi. — Lui si è messo nelle mie mani.
— Ci sono stato costretto — spiegò Baldanders. — Non c'era nessun altro, ed allora mi sono costruito il mio medico personale.
Stavo ancora cercando di recuperare l'equilibrio mentale, mentre guardavo ora l'uno ora l'altro senza notare alcun mutamento nell'atteggiamento o nelle maniere di nessuno dei due.
— Ma lui ti picchia — ribattei. — L'ho visto io.
— Una volta ti ho udito mentre ti confidavi con la donna minuta. Tu hai distrutto un'altra donna, che amavi. Eppure, tu eri il suo schiavo.
— Devo costringerlo a muoversi, capisci — spiegò il Dr. Talos. — Deve fare esercizio, e questa è una parte di ciò che faccio per lui. Mi hanno detto che l'Autarca... la cui salute è la felicità dei suoi sudditi... ha un isocrono nella sua camera da letto, dono di un altro Autarca che regna al di là dei confini del mondo. Forse è il signore di questi gentiluomini, io non lo so. Comunque, l'Autarca teme di svegliarsi con una daga alla gola e non ammette nessuno vicino a sé mentre dorme, così quel congegno marca i turni di guardia delle sue notti. Quando giunge l'alba, esso lo sveglia. Perché mai dovrebbe egli, che è il signore della Repubblica, permettere che il suo sonno venga turbato da una semplice macchina? Baldanders mi ha creato come suo medico, come ti ha detto. Severian, tu mi conosci ormai da qualche tempo. Diresti che sono afflitto dal difetto infame della falsa modestia?
Riuscii a sorridere mentre scuotevo il capo.
— Allora ti devo dire che io non sono responsabile delle mie virtù, così come esse sono. Baldanders, saggiamente, mi ha creato perché fossi tutto ciò che lui non è, in modo che potessi controbilanciare le sue manchevolezze. Io non amo il denaro, per esempio, e, da parte di un medico personale, questa è una cosa eccellente per il paziente. E sono leale verso i miei amici, perché il primo amico è lui.
— Eppure — osservai, — sono sempre rimasto stupito dal fatto che lui non ti uccidesse. — Faceva così freddo, in quella stanza, che mi trassi il manto più vicino alla persona, anche se ero certo che quella calma ingannevole non poteva durare.
— Devi sapere perché tengo sotto controllo il mio temperamento — disse il gigante. — Hai visto quando ho perso il controllo. Averli tutti seduti là, che mi guardavano come se fossi un orso in catene...
Il Dr. Talos gli toccò la mano, e c'era qualcosa di femmineo nel suo gesto.
— Sono le sue ghiandole, Severian. Il sistema endocrino e la tiroide. Tutto deve essere maneggiato con cura, altrimenti crescerebbe troppo in fretta. E poi, devo far sì che il suo stesso peso non gli spezzi le ossa ed un migliaio di altre cose.
— Il cervello — tuonò il gigante. — Il cervello è la cosa peggiore di tutte, ed anche la migliore.
— L'Artiglio ti ha aiutato? — chiesi. — Se non lo ha fatto, forse lo farà in mano mia. Ha fatto più cose per me nel breve tempo in cui l'ho posseduto di quante ne abbia fatte per le Pellegrine in tanti anni.
Quando il volto di Baldanders non diede mostra che questi avesse capito, il Dr. Talos spiegò:
— Si riferisce alla gemma che ci hanno inviato i pescatori. Essa dovrebbe effettuare guarigioni miracolose.
— Interessante. — A quelle parole Ossipago si era finalmente voltato verso di noi. — L'avete qui? La posso vedere?
Il dottore spostò ansiosamente lo sguardo dalla maschera inespressiva del cacogeno al volto di Baldanders e poi indietro, mentre diceva:
— Per favore, Onorevole, non è nulla, solo un frammento di corundum.
Per tutto il tempo in cui ero rimasto in quel livello della torre, nessuno dei cacogeni aveva modificato la sua posizione di più di un cubito; ora Ossipago si mosse fino alla mia sedia con corti passi ondeggianti. Io dovetti arretrare inorridito dinnanzi a lui perché mi disse:
— Non mi devi temere, anche se noi facciamo molto male alla tua specie. Io voglio sapere di questo Artiglio, che l'homunculus definisce solo un campione di minerale.
Quando gli sentii pronunciare quelle parole, temetti che lui ed i suoi compagni prendessero l'Artiglio a Baldanders e lo portassero nelle loro dimore al di là del vuoto, ma poi ragionai che non potevano farlo a meno di costringere il gigante a mostrarlo; pensai anche che, se lo avessero fatto, avrei potuto approfittarne per cercare di rientrarne in possesso, cosa che forse non mi sarebbe altrimenti riuscita. Così, raccontai ad Ossipago tutte le cose che l'Artiglio aveva fatto mentre era rimasto nelle mie mani... parlai dell'ulano sulla strada, degli uomini-scimmia e di tutte le altre manifestazioni del suo potere che ho già riferito. Mentre parlavo, l'espressione del gigante si faceva sempre più dura, e quella del dottore, pensai, sempre più ansiosa.
— Ed ora dobbiamo vedere questa meraviglia — disse Ossipago, quando ebbi finito di parlare. Per favore, tirala fuori.
Baldanders si alzò ed attraversò a grandi passi l'ampia stanza, facendo sembrare tutte le macchine dei giocattoli in confronto alle sue dimensioni, ed alla fine aprì il cassetto di un piccolo tavolo bianco traendone fuori la gemma. Nella sua mano essa appariva molto più spenta di quanto lo fosse mai stata in passato, tanto che avrebbe potuto essere scambiata per un frammento di vetro azzurro.
Il cacogeno la prese e la tenne nel guanto dipinto, anche se non voltò la faccia per guardarla come avrebbe fatto un uomo. Là, essa parve riflettere la luce che cadeva dalle gialle lampade e brillare di un limpido azzurro.
— Molto bella — commentò Ossipago, — e molto interessante, anche se ovviamente non può aver compiuto tutte quelle cose che tu le attribuisci.
— È ovvio — cantò Famulimus, facendo un altro di quei gesti che mi ricordavano le statue nel giardino dell'Autarca.
— Essa è mia — dissi loro. — Il popolo della riva me l'ha presa con la forza. Posso riaverla indietro?
— Se è tua — replicò Barbatus, — dove l'hai presa?
Mi lanciai nel compito di descrivere il mio incontro con Agia e la distruzione dell'altare delle Pellegrine, ma lui m'interruppe.
— Tutte queste sono congetture. Tu non hai visto il gioiello sull'altare, né hai avvertito la mano della donna quando lei te la nascondeva addosso, se effettivamente lo ha fatto. Dove l'haipresa?
— L'ho trovata in un compartimento della mia giberna. — Non mi sembrava che ci fosse altro da rispondere.
— E tu... — Barbatus si volse verso Baldanders, come deluso. — Adesso Ossipago ha il gioiello, e lo ha avuto da te. Dove lo hai preso?
— Mi hai visto — tuonò Baldanders. — Dal cassetto del tavolo.
Il cacogeno annuì muovendo la maschera con le mani.
— Vedi, allora, Severian, che la sua richiesta è divenuta altrettanto valida quanto la tua.
— Ma la gemma è mia, e non sua.
— Non è compito nostro fare da giudici fra di voi: dovrete risolvere la questione quando ce ne saremo andati. Ma, così per curiosità... che tormenta anche strani esseri quali voi ritenete che noi siamo... Baldanders, te la vuoi tenere?
— Non voglio un simile monumento alla superstizione nel mio laboratorio — replicò il gigante, scuotendo il capo.
— Allora dovrebbe esserci ben poca difficoltà nel risolvere la controversia — dichiarò Barbatus. — Severian, vorresti vedere la nostra nave sollevarsi? Baldanders assiste sempre alla nostra partenza, e, anche se non è il tipo che rapsodizza spettacoli artificiali o naturali, direi io stesso che è uno spettacolo che val la pena di vedere. — E si volse, aggiustandosi l'abito bianco.
— Onorevoli Hieroduli — risposi, — mi piacerebbe moltissimo, ma voglio chiedervi una cosa prima che ve ne andiate. Quando sono arrivato, avete detto che non c'era per voi gioia più grande che quella di vedermi, e vi siete inginocchiati. Intendevate sul serio dire quello che avete detto, o qualcosa di simile? Oppure mi avete confuso con qualcun altro?
Baldanders ed il Dr. Talos si erano alzati non appena il cacogeno aveva accennato alla partenza, ed ora, sebbene Famulimus avesse indugiato per ascoltare la mia domanda, gli altri avevano già iniziato ad allontanarsi; Barbatus stava salendo le scale che portavano al livello superiore, ed Ossipago, che stringeva ancora l'Artiglio, lo seguiva da vicino.
Cominciai a camminare anch'io, perché temevo di restare separato dalla gemma, e Famulimus mi si affiancò.
— Anche se ora non hai superato la nostra prova, io intendevo dire sul serio ciò che ti ho detto. — La sua voce era come quella di un qualche meraviglioso uccello, che superasse l'abisso provenendo da un'irraggiungibile foresta. — Quanto spesso abbiamo deliberato, Liege. Quanto spesso abbiamo fatto l'uno la volontà dell'altro. Credo che tu conosca le donne acquatiche. Forse che io, il coraggioso Barbatus ed Ossipago dobbiamo essere tanto meno sapienti di loro?
— Non so cosa tu intenda dire — replicai, traendo un profondo respiro. — Ma in qualche modo sento che voi siete buoni, anche se orrendi. E che le ondine non sono buone, anche se sono così graziose, e così mostruose, che a stento mi riesce di guardarle.
— Forse che tutto il mondo è solo una guerra fra il bene ed il male? Non hai mai pensato che potrebbe esserci qualcosa di più? — Non ci avevo pensato, e potei soltanto fissarlo. — E sopporterai il mio aspetto come un mio consanguineo. Senza offesa, mi posso togliere la maschera? Sappiamo entrambi che è una maschera e che tiene caldo. Baldanders è più avanti e non vedrà.
— Se lo desideri, Onorevole — risposi, — ma non dire...
Con un rapido gesto della mano, Famulimus si tolse il travestimento con un certo sollievo. La faccia che apparve non era una faccia, solo due occhi in un ammasso putrescente. Poi la mano si mosse nuovamente ed anche quella maschera scomparve. Sotto di essa vi era la strana, calma bellezza che avevo visto intagliata nei volti delle statue mobili nei giardini della Casa Assoluta, una bellezza che però differiva da quella delle statue come il volto di una donna viva differisce dal suo ritratto.
— Non hai mai pensato, Severian, che noi che portiamo una maschera potremmo portarne anche un'altra? Ma io che ne portavo due non ne porto tre. Nessun'altra falsità ci divide ora, te lo giuro. Tocca, Liege... metti le dita sul mio volto.
Avevo paura, ma lei mi prese la mano e se la portò alla guancia. Essa era fredda, eppure viva, il netto opposto dell'arido calore della mano del dottore.
— Tutte le maschere che ci hai visto indossare non rappresentano altro che i tuoi compagni abitanti di Urth. Un insetto, una lampreda, una lepre morente. Sono tutti tuoi fratelli, anche se ti fanno inorridire.
Eravamo già vicino all'ultimo livello della torre, e calpestavamo talvolta legno bruciato... le rovine rimaste dopo l'attacco che aveva scacciato Baldanders ed il suo medico. Quando allontanai la mano, Famulimus si rimise la maschera.
— Perché fate questo? — chiesi.
— Affinché la gente ci odii e ci tema. Se non lo facessimo, Severian, per quanto tempo gli uomini tollererebbero di essere governati da qualcuno che non siamo noi? Noi non vogliamo derubare la tua razza del suo governo. L'Autarca non mantiene forse il suo Trono della Fenice proteggendo la tua razza da noi?
Mi sentii come mi ero talvolta sentito sulle montagne nel destarmi da un sogno, quando mi levavo a sedere perplesso, mi guardavo intorno e vedevo la verde luna inchiodata nel cielo e le accigliate, solenni facce delle montagne al disotto dei loro diademi infranti al posto delle mura, da me sognate, dello studio del Maestro Palaemon o del nostro refettorio o del corridoio delle celle dove sedevo al tavolo di guardia fuori dalla porta di Thecla.
— Allora perché ti sei mostrata? — riuscii a dire.
— Anche se tu ci vedi, noi non vedremo più te — mi rispose. — La nostra amicizia inizia e termina qui, temo. Consideralo un dono di benvenuto da parte di amici che se ne stanno andando.
Poi il dottore, davanti a noi, spalancò una porta ed il tamburellare della pioggia divenne un rombo, ed io percepii la gelida, ma viva aria esterna che invadeva l'atmosfera fredda e morta dell'interno della torre. Baldanders dovette chinarsi e girare le spalle per poter superare la soglia, ed io rimasi colpito dalla consapevolezza che, con il tempo, non ci sarebbe più riuscito, indipendentemente dalle cure del Dr. Talos... La porta avrebbe dovuto essere allargata, ed anche le scale, perché se fosse caduto sarebbe certo morto. Compresi allora quel che prima mi aveva lasciato perplesso: il motivo per cui le stanze erano tanto grandi ed i soffitti tanto alti in questa che era la sua torre. E mi chiesi come fossero le volte di roccia sotto le quali Baldanders teneva confinati i suoi affamati prigionieri.
XXXV
IL SEGNALE
La nave non poggiava sulla struttura della torre, come sembrava dal basso. Piuttosto, pareva fluttuare nell'aria ad una catena circa di distanza sulle nostre teste... troppo in alto per proteggerci dalla pioggia che faceva brillare come madreperla nera il suo involucro ricurvo. Mentre la fissavo, non potei fare a meno di riflettere sulle vele che un simile vascello avrebbe dovuto possedere per utilizzare il vento che soffia fra i mondi; poi, proprio quando cominciavo a meravigliarmi che l'equipaggio della nave non sbirciasse neppure verso il basso per vedere noi, gli strani e sgraziati esseri che per un po' camminavano sul fondo, sotto il loro vascello, uno di essi scese effettivamente, camminando a testa in giù come uno scoiattolo, avvolto in una luce arancione ed aderendo alla paratia con le mani ed i piedi, anche se essa era umida come una qualsiasi pietra in un fiume e liscia come la lama di Terminus Est. Quando scorse sotto di sé Ossipago, Barbatus e Famulimus, l'essere smise di scendere ed un momento più tardi una linea sottile, anch'essa illuminata d'arancione, cosicché sembrava un filo di luce, venne calata da un punto imprecisato più in alto.
— Ora dobbiamo andare — disse Ossipago a Baldanders, e gli porse l'Artiglio. — Rifletti bene sulle cose che non ti abbiamo detto, e rammenta ciò che non ti abbiamo mostrato.
— Lo farò — replicò Baldanders con la voce più cupa che gli avessi mai sentito.
Poi Ossipago afferrò la linea e scivolò in alto fino a quando il filo si piegò per seguire la curva della nave e lo fece scomparire alla vista. Ma in qualche modo parve che lui non fosse scivolato su, bensì giù, come se la nave fosse stata essa stessa un mondo e traesse a sé tutto ciò che le apparteneva con cieca fame, così come fa Urth. O forse era solo perché Ossipago stava diventando più leggero della nostra aria, come il nuotatore che si tuffa dalla sua nave nel mare, e si stava innalzando come avevo fatto io quando ero balzato dalla barca del capo villaggio.
Comunque fosse, Barbatus e Famulimus lo seguirono. Famulimus agitò una mano prima di sparire dietro la massa della nave; senza dubbio, il dottore e Baldanders credettero che avesse salutato loro, ma io sapevo che quel gesto era rivolto a me. Una raffica di pioggia mi colpì in faccia, accecandomi nonostante il cappuccio.
Lentamente all'inizio, poi sempre più in fretta, la nave si sollevò ed indietreggiò, svanendo non in alto o a nord, a sud, ad est o ad ovest, bensì in una direzione che non sarei più stato in grado d'indicare dopo che fu scomparsa.
— Li hai sentiti. — Baldanders si era girato verso di me.
— Sì, ho parlato con loro — replicai, non comprendendo. — Il Dr. Talos mi ha invitato a farlo quando mi ha aperto la porta nel muro.
— Non mi hanno detto nulla, non mi hanno mostrato nulla.
— Aver visto la loro nave, ed aver parlato con loro — obiettai, — ... certo queste cose non sono nulla.
— Mi stanno spingendo avanti, sempre avanti. Mi spingono come un bue condotto al macello.
Si avvicinò ai bastioni e fissò la vasta distesa del lago che le acque smosse dalla pioggia facevano sembrare un mare di latte. I merli erano parecchie spanne più alti della mia testa, ma lui vi appoggiò le mani come fossero una ringhiera, ed io vidi il bagliore dell'Artiglio in un pugno chiuso. Il Dr. Talos mi tirò per il mantello e mi sussurrò che sarebbe stato meglio se fossimo andati dentro, al riparo dalla tempesta, ma io non volevo andare via.
— È cominciato molto tempo prima che tu nascessi. All'inizio mi hanno aiutato, anche se lo hanno fatto soprattutto suggerendo pensieri, ponendo domande. Ora accennano soltanto le cose. Ora si lasciano sfuggire soltanto quanto basta a rendermi certo che una determinata cosa è fattibile. Stanotte non c'è stato neppure questo.
Volendo incitarlo a non usare più gli isolani come cavie per i suoi esperimenti, ma non sapendo come farlo, dissi che avevo visto i suoi proiettili esplosivi, e che essi erano certo una meraviglia ed un notevole risultato.
— Natrium — replicò, volgendosi per fronteggiarmi, la grossa testa levata verso il cielo. — Tu non sai nulla. Il natrium è una semplice sostanza elementare che il mare fornisce a profusione. Credi che lo avrei dato ai pescatori, se fosse stato qualcosa di più di un giocattolo? No, io sono la mia grande creazione. Ed io sono la mia sola grande creazione.
— Guardati intorno — mi sussurrò il Dr. Talos. — Non riconosci tutto questo? È proprio come dice lui.
— Cosa intendi dire? — sussurrai di rimando.
— Il castello? Il mostro? L'uomo di scienza? Ci ho pensato solo adesso. Certo saprai che, come gli importanti eventi del passato proiettano la loro ombra nei secoli, così ora, mentre il sole si sta dirigendo verso l'oscurità, le nostre ombre si proiettano nel passato per turbare i sogni della razza umana.
— Sei pazzo — risposi, — oppure stai scherzando.
— Pazzo? — tuonò Baldanders. — Tu sei pazzo. Tu, con le tue fantasie di teurgia. Come devono ridere di noi! Pensano che siamo tutti barbari... anch'io, che ho faticato per il tempo di tre vite.
Protese il braccio ed aprì la mano. Ora l'Artiglio lampeggiava per lui. Feci per prenderlo, ma egli, con movimento improvviso, lo gettò via. Come brillava nel buio denso di pioggia! Era come se la luminosa Skuld fosse caduta dal cielo notturno.
Allora udii le grida del popolo del lago che aspettava fuori dalla porta. Io non avevo dato loro alcun segnale, eppure il segnale era stato fornito dal solo gesto che, salvo forse un attacco diretto alla mia persona, avrebbe potuto spingermi a lanciarlo. Terminus Est uscì dal fodero mentre il vento trasportava ancora il loro grido di battaglia. La sollevai per colpire, ma, prima che mi potessi avvicinare al gigante, il Dr. Talos balzò fra noi due. Pensai che l'arma da lui levata per parare il colpo fosse solo il suo bastone, e, se il mio cuore non fosse stato lacerato dalla perdita dell'Artiglio, avrei riso nel colpirlo. La mia lama risuonò sull'acciaio, e, sia pure a fatica, il dottore riuscì a contenere il colpo. Baldanders saettò accanto a me prima ancora che me ne rendessi conto e mi spinse contro il parapetto.
Non potevo schivare la stoccata del dottore, ma lui venne ingannato, credo, dal mio manto di fuliggine, e la punta della sua arma, pur sfiorandomi le costole, picchiò contro la pietra. Lo colpii con l'impugnatura della spada e lo feci cadere a terra.
Baldanders non era in vista. Dopo un istante mi resi conto che doveva essere andato alla carica verso la porta, e che il colpo assestatomi era stato solo una sorta di riflesso condizionato, come potrebbe fare un uomo che, assorto in altri pensieri, spenga la candela prima di lasciare la stanza.
Il dottore era steso sulle pietre del pavimento che era il tetto della torre... pietre che erano forse semplicemente grige alla luce del sole ma che ora apparivano di un nero bagnato. I suoi capelli rossi e la barba erano ancora visibili, il che mi permise di capire che era steso a pancia in giù, la testa girata da un lato. Non mi era parso di averlo colpito con tanta violenza, anche se poteva darsi che fossi più forte di quanto credevo, come altri avevano già sostenuto. Eppure, sentivo che, al di sotto del suo sicuro pavoneggiarsi, il Dr. Talos era stato più debole di quanto nessuno di noi avesse mai immaginato, tranne Baldanders. Avrei potuto ucciderlo facilmente, allora, muovendo Terminus Est in modo che l'angolo della lama gli penetrasse nel cranio.
Invece, raccolsi la sua arma, la sottile linea argentea che gli era caduta di mano. Era una lama ad un solo taglio, larga circa come il mio indice, molto tagliente, come era giusto che fosse la spada di un dottore. Dopo un momento, mi accorsi che l'impugnatura non era altro che il pomolo del suo bastone da passeggio, e che si trattava di una spada-bastone, come quella che avevo visto una volta in mano a Vodalus nella nostra necropoli, e sorrisi, là, sotto la pioggia, al pensiero che il dottore aveva portato con sé quella spada per così tante leghe senza che io, che avevo faticato al suo fianco con la mia arma appesa alla spalla, lo avessi saputo. La punta si era fracassata sulle pietre, ed allora gettai la lama rotta oltre il parapetto, come Baldanders aveva fatto con l'Artiglio, e scesi nella sua torre per ucciderlo.
Quando avevo salito le scale, ero troppo immerso nella conversazione con Famulimus per prestare molta attenzione alle stanze che stavamo oltrepassando. L'ultima la rammentavo solo come un luogo dove sembrava che tutto fosse drappeggiato di tessuto scarlatto. Ora vedevo i globi rossi, lampade che ardevano senza fiamma come i fiori d'argento che spuntavano dal soffitto dell'ampia stanza in cui avevo incontrato i tre esseri che non potevo più definire cacogeni. Quei globi erano posati su piedistalli d'avorio che sembravano leggeri e sottili come le ossa degli uccelli e che sorgevano da un pavimento che non era un pavimento, bensì un mare di tessuto rosso di diverse tonalità e materiali. Su quella stanza si stendeva un baldacchino sorretto da atlanti. Esso era scarlatto, ma intessuto con piastre d'argento talmente lucide da essere specchi quasi altrettanto perfetti quanto lo erano le armature dei pretoriani dell'Autarca.
Avevo già disceso le scale prima di comprendere che ciò che vedevo non era altro che la camera da letto del gigante e che il letto stesso, cinque volte le dimensioni di un letto normale, era poggiato direttamente sul pavimento con le coperte color ciliegia e carminio sparpagliate sul tappeto scarlatto. In quel momento, scorsi un volto in mezzo a quelle coperte arruffate. Sollevai la spada, ed il volto svanì, ma io lasciai ugualmente la scala per tirare via uno di quei lembi di tessuto. Il catamite sotto di essi (se effettivamente era un catamite) si alzò e mi fissò con l'ardire che talvolta mostrano i bambini piccoli. Ed effettivamente era un bambino piccolo, anche se era alto quasi quanto me, un ragazzino nudo dalla pancia enorme anche quando era distesa. Le sue braccia erano come cuscini rosa circondati da cordoni d'oro, ed i suoi orecchi erano stati forati ed adornati con cerchietti d'oro muniti di campanelline. Anche i suoi capelli erano dorati e ricci, e, al disotto di essi, lui mi fissò con gli occhi dilatati ed azzurri di un bambino.
Per quanto quella creatura fosse grossa, non potevo indurmi a credere che Baldanders praticasse la pederastia, nel senso in cui quel termine viene comunemente inteso, anche se era possibile che sperasse di farlo quando il ragazzino si fosse ingrandito ulteriormente. Certo doveva essere che, come teneva sotto controllo la propria crescita, permettendone solo il minimo necessario a bloccare i devastanti effetti del tempo, così Baldanders aveva accelerato la crescita di quel povero bambino per quanto gli era possibile, sulla base delle sue conoscenze antroposofiche. Dico questo perché mi sembrava certo che non avesse avuto il bambino sotto controllo se non qualche tempo dopo che lui ed il Dr. Talos si erano separati da me e da Dorcas.
(Lasciai il bambino dove lo avevo trovato, ed a tutt'oggi non so cosa ne sia stato di lui; ma mi sembra possibile che il popolo del lago lo abbia risparmiato e nutrito, o che il capo villaggio ed i suoi uomini lo abbiano trovato in seguito e lo abbiano curato.)
Ero appena disceso al piano inferiore che ciò che vidi cancellò dalla mia mente ogni pensiero relativo al bambino. Questa stanza era avvolta nella nebbia (che, ne sono certo, non c'era quando ero precedentemente passato di là), come la stanza precedente era ammantata di tessuto rosso. Era un vapore vivo che si contorceva così come avrei potuto immaginare che si contorcessero le parole nell'emergere dalla bocca del Pancreatore. Mentre guardavo, un uomo fatto di nebbia, bianco come un verme di cimitero, sorse dinnanzi a me brandendo una lancia da pesca. Prima che mi fossi reso conto che era un semplice fantasma, la mia lama gli aveva trapassato il polso come avrebbe potuto trapassare una colonna di fumo. Immediatamente, esso cominciò a ridursi, e la nebbia parve ricadere su se stessa, fino a che l'essere mi arrivò appena più in alto della vita.
Avanzai di qualche passo e scesi altri gradini, fino a trovarmi in mezzo al candore roteante. Allora venne alla carica su quella superficie una creatura orrenda formata, come l'uomo, di nebbia. In tutti i nani che ho visto, la testa ed il torso sono di dimensioni normali, mentre gli arti, per quanto muscolosi, rimangono quelli di un bambino. Quella creatura era l'inverso di un simile nano, con braccia e gambe più grandi delle mie, che scaturivano da un corpo contorto e sparuto.
L'anti-nano brandiva un estoc, e, aprendo la bocca in un grido silenzioso, conficcò la sua arma nel collo dell'uomo, del tutto inconsapevole della lancia di questi che gli si era conficcata nel torace.
Allora udii una risata, e, sebbene non lo avessi visto spesso allegro, capii subito chi era stato a ridere.
— Baldanders! — chiamai.
La sua testa sorse dalla nebbia proprio come mi era capitato, all'alba, di veder emergere da essa le vette montane.
XXXVI
IL COMBATTIMENTO NEL CORTILE
— Qui c'è un nemico vero — dissi, — con una vera arma. — Avanzai nella nebbia annaspando davanti a me con la lama della mia spada.
— Anche quelli che vedi nella mia camera delle nubi sono nemici veri — tuonò Baldanders, con voce perfettamente calma. — Solo che essi si trovano all'esterno, nel cortile. Il primo era uno dei tuoi amici, il secondo uno dei miei nemici.
Mentre parlava, la nebbia si dissipò, ed io lo scorsi, quasi nel centro della stanza, seduto su una sedia massiccia. Quando mi volsi verso di lui, Baldanders si alzò, e, afferrata la sedia per lo schienale, la lanciò verso di me come se fosse un canestro, mancandomi per meno di una spanna.
— Ora cercherai di uccidermi — disse, — e tutto per uno stupido incantesimo. Avrei dovuto ucciderti la notte in cui hai dormito nel mio letto.
Anch'io avrei potuto dire la stessa cosa, ma non mi curai di ribattere. Era evidente che, fingendosi impotente, il gigante stava tentando d'indurmi ad uno sconsiderato attacco, e, sebbene sembrasse disarmato, era pur sempre alto il doppio di me, e, avevo ragione di credere, tre o quattro volte più forte. Poi, mentre mi avvicinavo a lui, mi resi conto che noi stavamo ripetendo lo spettacolo che avevo visto fare in sogno dalle marionette, quella notte che lui mi aveva appena rammentato, e che in quel sogno il gigante di legno aveva avuto per arma un randello. Mentre avanzavo, lui indietreggiava dinnanzi a me un passo dopo l'altro, eppure sembrava sempre pronto a venire ad un corpo a corpo.
Improvvisamente, quando eravamo a circa tre quarti della stanza, dalla parte opposta alle scale, si girò e si mise a correre. Era stupefacente, come veder correre un albero.
Era anche molto rapido, per quanto fosse massiccio, ogni passo dei suoi ne copriva due normali, e lui raggiunse il muro, dove c'era una finestra stretta come quella da cui si era affacciato Ossipago... parecchio tempo prima di me.
Per un momento, non riuscii ad immaginare cosa avesse intenzione di fare. La finestra era troppo stretta perché potesse passarvi. Vi infilò entrambe le mani, ed io sentii lo stridio della pietra contro la pietra.
Capii appena in tempo, e riuscii ad indietreggiare di qualche passo. Un istante più tardi, Baldanders aveva in mano un macigno strappato dal muro, e, sollevatolo sul capo, me lo lanciò contro.
Mentre io balzavo da un lato, il gigante staccò un'altra pietra, ed un'altra ancora. Alla terza, dovetti rotolare disperatamente, sempre stringendo la spada, in modo da evitarne una quarta: le pietre arrivavano sempre più in fretta perché la mancanza di quelle già tolte indeboliva la struttura del muro. Per un purissimo caso, tutto quel rotolare mi portò vicino ad una cassettina, non più grande di quella che una modesta casalinga avrebbe potuto usare per riporre i suoi anelli, abbandonata al suolo.
Essa era decorata con piccole manopole, e qualcosa nella loro forma mi rammentò quelle manopole che il Maestro Gurloes aveva girato quando era in corso la tortura di Thecla. Prima che Baldanders avesse potuto staccare un'altra pietra, avevo afferrato la cassetta e girato una delle manopole. Immediatamente, la nebbia svanita emerse di nuovo dal pavimento, raggiungendo rapidamente il livello della mia testa, in modo che venni accecato da quel mare bianco.
— L'hai trovata — disse la voce lenta e profonda di Baldanders. — L'avrei dovuta spegnere. Ora non ti posso vedere, ma tu non puoi vedere me.
Rimasi in silenzio perché sapevo che aveva in mano un blocco di pietra ed era pronto a tirarlo: aspettava solo di udire il suono della mia voce. Dopo aver tratto forse due dozzine di respiri, cominciai a muovermi verso di lui più silenziosamente che potevo. Ero certo che, nonostante tutta la sua abilità, non poteva camminare senza che io lo sentissi. Avevo mosso appena quattro passi quando la pietra si abbatté al suolo alle mie spalle, e sentii il rumore di un'altra che veniva divelta dalla parete.
Era una pietra di troppo: ci fu un rombo assordante ed io compresi che l'intera sezione di muro al disopra della finestra doveva essere crollata. Per un breve istante osai sperare che il crollo avesse ucciso Baldanders, ma la nebbia cominciò a diradarsi immediatamente, fuoriuscendo dall'apertura nel muro e dissolvendosi nella notte e nella pioggia, ed io lo vidi, ancora in piedi vicino al buco.
Doveva aver lasciato cadere la pietra che aveva divelto quando il muro era crollato, perché era a mani vuote. Scattai verso di lui con la speranza di poterlo attaccare prima che si accorgesse che gli ero addosso, ma, ancora una volta, il gigante fu più svelto. Lo vidi afferrare quel che rimaneva del muro e proiettarsi fuori, e, quando finalmente raggiunsi il buco, era già ad una certa distanza, più sotto. Quello che aveva fatto mi sembrava impossibile, ma, quando osservai con maggiore attenzione la parte della torre illuminata dalle luci della camera in cui mi trovavo, notai che le pietre erano tagliate rozzamente ed erano prive di calce, cosicché fra di esse vi erano spesso crepe utilizzabili, e che il muro s'inclinava verso l'interno man mano che saliva.
Fui tentato di rinfoderare Terminus Est e di seguirlo, ma se lo avessi fatto sarei stato completamente vulnerabile, dal momento che Baldanders avrebbe certo raggiunto il suolo prima di me. Gli lanciai dietro la scatoletta e presto lo persi di vista nella pioggia. Senza che mi rimanesse altra scelta, tornai annaspando fino alle scale e le discesi fino al livello che avevo visto quando ero entrato nel castello.
Allora esso era stato silenzioso e disabitato, salvo che per la presenza dei meccanismi, mentre ora era un pandemonio. Sopra, sotto, fra le macchine si muovevano dozzine di esseri orrendi simili alla cosa spettrale il cui fantasma avevo visto nella stanza che Baldanders chiamava la camera delle nubi. Come Typhon, alcuni avevano due teste, altri avevano quattro braccia, molti erano afflitti da arti sproporzionati... gambe lunghe due volte i loro corpi, braccia più grosse delle loro cosce. Tutti erano muniti di armi, e, a quanto pareva, erano pazzi, poiché si colpivano a vicenda così come colpivano gli isolani che lottavano contro di loro. Mi rammentai allora di ciò che Baldanders mi aveva detto, e cioé che il cortile sottostante era pieno dei miei amici e dei suoi nemici. Era certo stato esatto: quelle creature lo avrebbero attaccato a vista, così come si attaccavano a vicenda.
Ne abbattei tre prima di raggiungere la porta, e riuscii a chiamare a me gli uomini del lago che erano entrati nella torre, spiegando che il vero nemico si trovava all'esterno. Quando vidi quanto temevano i mostri lunatici che continuavano a scaturire dall'oscura tromba delle scale (e che essi non riuscivano a riconoscere per ciò che erano... e cioè i resti rovinati dei loro fratelli e figli), rimasi stupito che avessero avuto il coraggio di entrare nel castello. Fu meraviglioso, tuttavia, notare come la mia presenza li rincuorò; mi permisero di prendere il comando, ma nei loro occhi lessi che mi avrebbero seguito dovunque li avessi condotti. Quella fu la prima volta, credo, che compresi il piacere che la sua posizione doveva aver dato al Maestro Gurloes, piacere che fino ad allora avevo creduto consistesse solo nella celebrazione della sua abilità d'imporre ad altri la propria volontà. Compresi anche come mai tanti giovani abbandonassero le fidanzate, le mie amiche nella vita che avevo vissuto come Thecla, per accettare le commissioni loro assegnate in oscuri reggimenti.
La pioggia era rallentata, anche se cadeva ancora in veli argentei. Uomini morti e molte creature del gigante giacevano sugli scalini, cosicché fui costretto a gettarne alcuni a calci giù dalla rampa per timore di cadere se avessi tentato di camminare su di loro. Nel cortile si combatteva ancora, ma nessuna delle creature di laggiù venne ad attaccarci, e gli uomini del lago difesero la scala contro i mostri che avevamo lasciato all'interno. Non vidi traccia di Baldanders.
Ho scoperto che è difficile descrivere un combattimento, anche se esso è eccitante nel senso che ti fa dimenticare di te stesso. E quando è finito, ciò che uno ricorda meglio... perché al momento della lotta la mente è troppo impegnata per registrare molte cose... non sono i fendenti e le parate, bensì le pause fra i vari scontri. Nel cortile del castello di Baldanders, scambiai colpi frenetici con quattro dei mostri che questi aveva creato, ma non avrei saputo dire quando combattevo bene e quando male.
L'oscurità e la pioggia favorivano lo stile selvaggio di combattimento che mi veniva imposto dalla linea di Terminus Est. Non solo un duello formale, ma ogni combattimento con la spada o la lancia richiede una buona visibilità, dal momento che ciascun antagonista deve poter vedere l'arma dell'avversario. Qui non c'era quasi luce per nulla, ed inoltre le creature di Baldanders possedevano un coraggio suicida che le danneggiava. Esse tentavano di balzare sopra o di schivare da sotto i miei fendenti, e, nella maggior parte dei casi finivano per essere colte dal controfendente che seguiva. In ciascuna di quelle schermaglie, gli uomini del lago fecero la loro parte, ed in un'occasione eliminarono per me il mio avversario, mentre in altre lo distrassero oppure lo ferirono prima che io lo affrontassi. Nessuno di quegli scontri era soddisfacente nel modo in cui lo è un'esecuzione ben eseguita.
Dopo il quarto, non ce ne furono più, anche se i loro morti e moribondi giacevano da ogni parte. Radunai gli isolani intorno a me: eravamo tutti in quello stato di euforia che accompagna una vittoria, ed eravamo disposti ad attaccare il gigante, non importava quanto fosse grosso. Ma anche coloro che si erano trovati nel castello quando le pietre avevano iniziato a cadere, giurarono di non aver visto nessuno. Poi, proprio quando io stavo cominciando a pensare che fossero ciechi, e loro, indubbiamente, a ritenere che io fossi matto, fummo salvati dalla luce della luna.
Com'è strano. Tutti cercano il sapere nel cielo, sia per scoprire nelle costellazioni l'influenza che esse hanno sugli eventi, sia per tentare, come Baldanders, di sottrarlo a quegli esseri che gli ignoranti chiamano cacogeni, sia, come nel caso di contadini, pescatori ed affini, solo per predire il tempo che farà. Eppure, nessuno cerca mai nel cielo un aiuto immediato, anche se spesso lo riceviamo, come accadde a me quella notte.
Non fu nulla di più che un'apertura nelle nubi. La pioggia, che si era fatta irregolare, cessò completamente, ma, per un brevissimo istante la luce della luna (molto alta, e, sebbene solo piena a metà, molto brillante), cadde sul cortile del gigante come la luce di una delle più grandi lampade dell'auditorio del livello onirico della Casa Assoluta era solita cadere sul palcoscenico. Sotto di essa, le pietre lisce e bagnate della pavimentazione brillarono come polle d'acqua scura ed immota, ed in esse vidi riflessa una cosa talmente fantastica che mi chiedo come abbia potuto evitare di non far altro che fissarla fino a morire... il che sarebbe accaduto rapidamente.
Perché Baldanders stava cadendo su di noi, ma stava cadendo lentamente.
XXXVII
TERMINUS EST
Nel mio libro marrone ci sono immagini di angeli che discendono su Urth proprio in quella posizione, la testa gettata all'indietro, il corpo inclinato in modo che la faccia e la parte superiore del torace si trovino alla stessa altezza. Posso immaginare la meraviglia e l'orrore che potevano venire dal contemplare quel grande essere che avevo intravisto nel libro nella Seconda Casa, mentre discendeva in quel modo, eppure non credo che la cosa avrebbe potuto essere più spaventosa. Ora, quando ricordo Baldanders, lo ricordo sempre così. Il suo volto era teso, e lui teneva sollevata una mazza sulla cui punta era inserita una sfera fosforescente.
Ci sparpagliammo come fanno i passeri quando un gufo piomba fra loro, al tramonto. Sentii l'aria smossa dal colpo alle mie spalle, e mi volsi in tempo per vederlo atterrare, puntellandosi con la mano libera e rimbalzando in piedi come avevo visto fare ad acrobati da strada; portava una cintura che non avevo notato prima, un affare formato da prismi di metallo collegati fra loro. Non ho mai scoperto, tuttavia, come avesse fatto a rientrare nella torre per prendere mazza e cintura mentre io credevo che stesse scendendo lungo il muro; forse c'era una finestra, da qualche parte, più grossa di quelle che avevo visto, o magari perfino una porta che dava accesso ad una qualche struttura distrutta dal precedente incendio, appiccato dal popolo della riva. Era perfino possibile che avesse infilato all'interno solo un braccio per prendere gli oggetti.
Ma, oh, il silenzio, mentre scendeva fluttuando nell'aria, la grazia mentre lui, che era grande quanto le capanne di molti poveri, si puntellava con una mano e si voltava, in piedi! Il modo migliore per descrivere quel silenzio è non dire nulla... ma la grazia!
Allora roteai su me stesso, il mantello spinto indietro dal vento e la spada sollevata per colpire, come molte altre volte; e compresi ciò su cui in precedenza non mi ero mai soffermato a riflettere... perché il mio destino mi avesse mandato a vagabondare attraverso mezzo continente, fronteggiando pericoli che provenivano dal fuoco, dalle profondità di Urth, dall'acqua ed ora anche dall'aria, armato di quell'arma così grande e pesante che combattere con essa contro un uomo normale era come tagliare gigli con un'ascia. Baldanders mi vide e sollevò la sua mazza, la cui punta ardeva di una luce bianco-azzurra. Credo fosse una sorta di saluto.
Cinque o sei uomini del lago lo circondarono con lance e bastoni muniti di denti, ma non lo attaccarono: sembrava che il gigante fosse al centro di un qualche cerchio ermetico. Nel momento in cui noi due ci avvicinammo, scoprii il motivo di quel comportamento: un terrore che non riuscivo a comprendere né a controllare si era impadronito di me. Non era che avessi paura di lui o della morte, ma semplicemente avevo paura. Sentii i capelli rizzarmisi sulla nuca come sotto il tocco di uno spettro, una cosa di cui avevo sentito parlare ma che avevo sempre considerato un'esagerazione, un'immagine figurata trasformata in una menzogna. Le mie ginocchia erano deboli e tremavano... al punto che ero lieto che nel buio la cosa non si notasse. Ma ci avvicinammo ancora.
Sapevo fin troppo bene che, in base alle dimensioni di quella mazza e del braccio che la brandiva, non sarei mai riuscito a sopravvivere ad un colpo sferrato con essa: potevo solo schivare e saltare all'indietro. Baldanders, dal canto suo, non avrebbe potuto sopportare un fendente di Terminus Est, perché, anche se era grande e forte quanto bastava per reggere il peso di un'armatura spessa come la bardatura di un destriero, non aveva protezione alcuna ed una lama così pesante e tanto affilata, capace di tagliare in due fino alla vita un uomo normale, avrebbe potuto ucciderlo con un solo colpo.
Lui lo sapeva, e quindi duellammo come attori su un palcoscenico, con violenti fendenti ma senza mai avvicinarci troppo. Per tutto quel tempo, il terrore mi teneva nella sua morsa, al punto che mi sembrava che, se non mi fossi girato e messo a correre, il cuore mi sarebbe scoppiato. C'era un suono nei miei orecchi, e, mentre fissavo l'estremità della mazza, la cui chiara aureola era fin troppo facile da vedere, mi resi conto che era di là che proveniva il rumore che udivo... Quell'arma ronzava emettendo sempre la stessa nota acuta, come un bicchiere colpito con un coltello ed immobilizzato in un tempo cristallino.
Indubbiamente, la scoperta mi distrasse, anche se fu solo per un momento. Invece di vibrare un colpo di traverso, la mazza scese diritta, come un maglio che si abbatta sul paletto di una tenda. Mi spostai da un lato appena in tempo, e la testa lucente e ronzante lampeggiò oltre la mia faccia e si abbatté sulle pietre del selciato, che si spaccarono ed andarono in pezzi come fossero una terrina d'argilla. Una scheggia mi tagliò un angolo della fronte e sentii il sangue scorrere.
Baldanders lo notò, ed i suoi occhi cupi si accesero con una luce di trionfo. Da quel momento in poi, lui ruppe una pietra ad ogni colpo, ed io fui costretto ad indietreggiare ripetutamente, fino a trovarmi con le spalle contro il muro. Mentre mi ritiravo lungo esso, il gigante trasse un maggior vantaggio dalla sua arma, percuotendo a più riprese la parete con colpi orizzontali. Spesso, le schegge di pietra taglienti come lame, mi mancavano, ma altrettanto spesso mi coglievano, e ben presto il sangue prese a colarmi sugli occhi e il petto e le braccia mi si coprirono di carminio.
Mentre balzavo lontano dalla mazza forse per la centesima volta, qualcosa mi colpì al calcagno e mi fece quasi cadere: era il primo gradino di una scala che saliva in cima al muro. Venni respinto su per quella scala un gradino dopo l'altro, e mi trovai su uno stretto passaggio in cima al muro. Adesso veramente avrei voluto girarmi e fuggire, se avessi osato, ma ricordavo con quanta rapidità il gigante si era mosso quando lo avevo sorpreso nella camera delle nubi, e sapevo che mi sarebbe stato addosso in un balzo, così come io, da ragazzo, raggiungevo i topi nella segreta sotto la nostra torre e rompevo loro la schiena con un bastone.
Ma non tutte le circostanze favorivano Baldanders. Qualcosa di bianco lampeggiò fra noi, poi una lancia dalla punta d'osso si conficcò nel grosso braccio, come una lancia da corrida nel collo di un toro. Adesso gli uomini del lago erano abbastanza lontani dalla mazza ronzante da non essere più impediti a lanciare le loro armi per il terrore che essa destava. Baldanders esitò, indietreggiando per estrarre la lancia. Un'altra lo colpì, sfiorandogli la guancia.
Allora conobbi la speranza, e balzai in avanti, e, nel balzare, persi l'equilibrio a causa di un pietra rotta e viscida per la pioggia. Volai quasi giù, ma all'ultimo momento mi afferrai al parapetto... in tempo per vedere la testa luminosa della mazza del gigante discendere su di me. Istintivamente, sollevai Terminus Est per parare il colpo.
Ci fu un urlo tale che sarebbe potuto provenire dalle gole degli spettri di tutti gli uomini e di tutte le donne che quella spada aveva ucciso... poi seguì un'esplosione assordante.
Rimasi stordito per un momento, ma anche Baldanders era stordito, e gli uomini del lago, ora che l'incantesimo della mazza era spezzato, stavano sciamando verso di lui lungo il camminamento da entrambi i lati... Forse l'acciaio della spada, che aveva una sua frequenza di suono e che, come avevo spesso notato, vibrava con meravigliosa dolcezza se sfiorato con un dito, era stato troppo per il meccanismo, quale che fosse, che conferiva alla mazza del gigante i suoi strani poteri. Forse la sua lama, più tagliente di quella di un chirurgo, era penetrata nella testa della mazza. Qualsiasi cosa fosse accaduta, la mazza era scomparsa, ed io tenevo in mano solo l'impugnatura della spada, da cui sporgeva meno di un cubito di metallo frantumato. L'hydrargyrum, che aveva per tanto tempo lavorato silenziosamente all'interno della lama, scaturiva ora da essa in lacrime d'argento.
Prima che mi potessi sollevare, gli uomini del lago stavano balzando al disopra di me. Una lancia si conficcò nel torace del gigante, ed una mazza lo colpì al volto. Due uomini vennero precipitati, urlanti, giù dalla parete da una mossa del braccio di Baldanders, ma altri gli furono subito addosso. Lui se li scrollò di torno mentre io mi alzavo faticosamente in piedi, ancora comprendendo solo in parte quello che era accaduto.
Per un istante, Baldanders rimase immoto sul parapetto, poi balzò giù. Senza dubbio, dovette ricevere un grande aiuto dalla cintura che portava, ma la forza dei muscoli delle sue gambe doveva essere enorme. Lentamente, lentamente, lui s'inarcò sempre più in fuori e sempre più in giù. Tre uomini, che gli erano rimasti aggrappati troppo a lungo, caddero e morirono sulle rocce del promontorio.
Alla fine, cadde anche lui... pesantemente, come se fosse una sorta di nave volante che avesse perso il controllo. Bianche come il latte, le acque del lago eruppero in fuori e poi si richiusero su di lui. Qualcosa che si contorceva come un serpente e talvolta rifletteva la luce sorse dall'acqua e salì nel cielo fino a svanire fra le cupe nubi: indubbiamente, si trattava della cintura. Tuttavia, sebbene gli isolani rimanessero in attesa con le lance pronte, la testa del gigante non riapparve più al disopra delle acque.
XXXVIII
L'ARTIGLIO
Quella notte, gli uomini del lago saccheggiarono il castello; io non mi unii a loro e non dormii all'interno di quelle mura. Al centro della macchia di pini dove avevamo in precedenza tenuto consiglio, trovai un punto così ben protetto dai rami che il sottostante tappeto di aghi secchi era ancora asciutto. Mi distesi là dopo aver lavato e fasciato le mie ferite. L'impugnatura della spada che era stata mia, e prima ancora del Maestro Falaemon, giaceva accanto a me, cosicché ebbi l'impressione di dormire con una cosa morta; ma questo non mi procurò alcun sogno.
Mi destai con la fragranza dei pini nelle narici. Urth aveva volto quasi completamente la faccia verso il sole; il corpo mi faceva male, e gli innumerevoli tagli causati dalle schegge di pietra bruciavano e pungevano, ma quella era la giornata più calda che avessi mai sperimentato da quando avevo lasciato Thrax per avventurarmi sulle montagne. Uscii dal boschetto e vidi il Lago Diuturna che brillava al sole e l'erba novella che cresceva fra le pietre.
Sedetti su una roccia sporgente, con la massa del muro del castello di Baldanders che si levava alle mie spalle ed il lago azzurro disteso ai miei piedi; per l'ultima volta, rimossi l'estremità della lama rovinata che era stata Terminus Est dalla bella impugnatura di argento ed onice. È la lama a personalizzare una spada, e Terminus Est non esisteva più, ma io portai l'impugnatura con me per il resto del viaggio, anche se bruciai la fodera di pelle umana. Un giorno, quell'impugnatura reggerà un'altra spada, anche se non potrà essere altrettanto perfetta e non sarà mia.
Baciai ciò che rimaneva della mia lama e lo gettai nel lago.
Poi, iniziai la mia ricerca fra le rocce. Avevo solo una vaga idea della direzione in cui Baldanders aveva gettato l'Artiglio, ma sapevo che aveva mirato verso il lago, e, sebbene lo avessi visto superare il muro di cinta, ero convinto che anche un braccio possente come quello del gigante non poteva essere riuscito a far raggiungere l'acqua ad un oggetto tanto piccolo.
Scoprii ben presto, tuttavia, che se era caduto nel lago, l'Artiglio era perduto per sempre, perché l'acqua aveva una profondità di molti ells in ogni punto. Comunque, mi sembrava ancora possibile che l'Artiglio non avesse raggiunto il lago e si fosse incastrato in qualche crepaccio che ne soffocava la luminosità.
E mi misi a cercare, timoroso di chiedere agli uomini del lago di aiutarmi, e timoroso di sospendere le ricerche per riposare o mangiare, per paura che qualcun altro trovasse la gemma. Scese la notte, accompagnata dal grido del tuffolo che salutava lo svanire della luce, e gli uomini del lago mi offrirono di condurmi alle loro isole, ma io rifiutai. Essi temevano che la gente della riva arrivasse, o che stesse organizzando un attacco per vendicare Baldanders (non avevo osato dire loro che sospettavo che il gigante non fosse morto e che vivesse ancora sotto le acque del lago), e così alla fine, dietro mio incitamento, mi lasciarono solo, a continuare a frugare carponi fra le rocce appuntite del promontorio.
Poi, fui troppo stanco per continuare a cercare al buio, e mi sistemai su una sporgenza di pietra per attendere lo spuntare del giorno. Di tanto in tanto, mi sembrava di vedere una luce azzurra brillare in qualche fessura vicina o nelle acque sottostanti, ma ogni volta che tentavo di stendere la mano per prenderla o cercavo di alzarmi e camminare verso il bordo della sporgenza per guardare giù, mi svegliavo con un sussulto e scoprivo di aver sognato.
Un centinaio di volte mi domandai se qualcun altro avesse trovato la gemma mentre io dormivo sotto il pino, ed imprecai contro me stesso per aver dormito; ed un centinaio di volte ancora rammentai a me stesso come sarebbe stato meglio per la gemma essere rinvenuta da qualcuno piuttosto che andare perduta per sempre.
Come le carogne, d'estate, attirano le mosche, così la corte attira saggi spuri, filosofi, ed acosmisti che vi rimangono fintanto che i loro scopi ed il loro ingegno sono in grado di mantenerli, nella speranza (all'inizio) di essere ricevuti dall'Autarca e (in seguito) di ottenere la posizione di tutore presso qualche famiglia di esaltati. A sedici anni circa, Thecla si era sentita attratta, come credo accada spesso alle giovani donne, dalle loro letture di teogonia, todicia e simili, e ne rammento in particolare una in cui una pheobad proponeva come verità estrema l'antica teoria filosofica dell'esistenza di tre Adonai, quella della città (o del popolo), quella dei poeti e quella dei filosofi. Il suo ragionamento era che fin dall'inizio della consapevolezza umana (se tale inizio c'era mai stato) numerose persone, nelle tre categorie, avevano tentato di penetrare il segreto del divino. Se esso non esiste, lo avrebbero scoperto già da molto tempo; se esso esiste, non è possibile che la Verità stessa li guidi fuori strada. Eppure, le credenze della popolazione, le introspezioni dei rapsodisti e le teorie dei metafisici sono così divergenti che ben pochi di loro riescono anche lontanamente a comprendere quel che dicono gli altri, e qualcuno, che non sapesse nulla di nessuna delle loro idee, potrebbe ben credere che non esista fra esse la minima connessione.
Non potrebbe essere, chiedeva la pheobad (ed ancora ora non son certo di conoscere la risposta), che invece di viaggiare, come si suppone, lungo le loro tre strade verso una medesima conclusione, essi stiano invece avanzando verso tre conclusioni completamente diverse? Dopo tutto, nella vita reale, quando vediamo tre strade che partono dallo stesso crocevia, non presumiamo mai che puntino tutte e tre verso la stessa meta.
Trovavo allora (e trovo ancora) che questa supposizione sia altrettanto razionale quanto è repellente, e che essa rappresenti tutto quel monomaniacale tessuto di argomentazioni, intrecciato così fittamente che dalla sua rete non può sfuggire la più piccola scintilla di luce né la più minuta obiezione, in cui la mente umana finisce per trovarsi invischiata ogniqualvolta l'argomento è tale che non sia possibile appellarsi in alcun modo ai fatti materiali.
In verità, l'Artiglio era quindi qualcosa d'incommensurabile. Nessuna quantità di denaro, nessun mucchio di arcipelaghi o imperi poteva accostarsi al suo valore più di quanto l'indefinita moltiplicazione di una distanza orizzontale potesse essere eguagliata ad una pari distanza verticale. Se esso era, come io credevo, un oggetto proveniente dall'esterno dell'universo, allora la sua luce, che io avevo visto tanto spesso brillare debolmente e talvolta con vigore, era in un certo senso la sola luce che noi possedessimo. Se esso era andato distrutto, saremmo rimasti ad annaspare nel buio.
Pensavo di aver sempre attribuito un elevato valore alla gemma per tutto il tempo che l'avevo posseduta, ma, mentre sedevo là, su quella sporgenza di pietra sovrastante le acque del Lago Diuturna immerse nel buio, mi resi conto di quanto fossi stato folle a portarla con me, attraverso tutti i miei selvaggi scontri e le mie pazze avventure, fino a quando l'avevo perduta. Poco prima dell'alba, giurai di togliermi la vita se non fossi riuscito a ritrovarla prima che scendesse nuovamente la notte.
Non saprei dire se sarei stato capace o meno di mantenere quel voto. Ho amato la vita da quando mi riesce di ricordare. (Fu, credo, proprio quell'amore per la vita a conferirmi l'abilità che possedevo nella mia arte, poiché non potevo sopportare di veder estinta quella fiamma che amavo, se non in un modo perfetto.) Certo amavo la mia vita, ora mescolata a quella di Thecla, quanto ognuno ama la propria, e, se avessi infranto quel voto, non sarebbe stata la prima volta che facevo una cosa simile.
Ma non ci fu bisogno di verificare. Verso la metà della mattinata di una delle giornate più belle che io abbia mai sperimentato, quando la luce del sole era una languida carezza ed il moto delle onde sottostanti una musica gentile, trovai la gemma... o ciò che ne rimaneva.
Si era frantumata sulle rocce; c'erano frammenti abbastanza grandi per adornare l'anello di un tetrarca e frammenti non più grandi delle pagliuzze luminose visibili nella mica, ma nulla di più. Piangendo, raccolsi quei frammenti uno per uno, e, quando mi accorsi che erano altrettanto inerti e privi di vita quanto i gioielli che i minatori portano ogni giorno alla superficie, i monili razziati dei progenitori da lungo tempo morti, li portai fino al lago e ve li gettai dentro.
Scesi per ben tre volte fino al limitare delle acque con una manciata di frammenti azzurri in mano, tornando ogni volta nel punto in cui avevo trovato la gemma spezzata per raccogliere gli altri; e, dopo il terzo viaggio, trovai, incastrata talmente bene fra due pietre che alla fine fui costretto a tornare al boschetto di pini per prendere qualche ramo con cui disincagliarla e tirarla fuori, una cosa che non era azzurra e non era una gemma, ma che ardeva di un'intensa luce bianca, come una stella.
Fu con curiosità, più che con reverenza, che la trassi fuori. Era così dissimile dal tesoro che avevo cercato... o, per lo meno, così dissimile dai frammenti azzurri che stavo raccogliendo... che fino a che non l'ebbi in mano non mi venne in mente che le due cose potessero essere collegate. Non saprei spiegare come fosse possibile per un oggetto di per sé nero emettere luce, ma questo lo faceva. Avrebbe potuto essere stato intagliato nel giaietto, tanto era scuro e lucido; eppure splendeva, un artiglio lungo quanto l'ultima falange del mio mignolo, crudelmente ricurvo ed appuntito, la realtà del cuore scuro contenuto all'interno della gemma, che doveva essere stata un semplice involucro per esso, una lipsanotheca o una coppella.
Rimasi per lungo tempo inginocchiato, con la schiena rivolta al castello, guardando quello strano, lucente tesoro e poi le onde e poi di nuovo l'oggetto, nel tentativo di afferrarne il significato. Vedendolo così, senza il suo involucro color zaffiro, avvertivo profondamente un effetto che non avevo mai percepito durante tutti i giorni, prima che mi fosse tolto nella casa del capo villaggio. Ogni volta che lo fissavo, esso sembrava cancellare i miei pensieri. Non come fanno il vino e certe droghe, che rendono la mente incapace di pensare, ma sostituendo il pensiero con una condizione più elevata, innalzandomi sempre più fino a che temetti che non sarei più riuscito a tornare allo stato cosciente che definisco normalità. Ripetutamente, distolsi a forza lo sguardo da esso, e, ogni volta che emersi alla realtà, ebbi l'impressione di aver ottenuto una qualche inesprimibile capacità introspettiva rispetto ad immense realtà.
Alla fine, dopo una lunga serie di queste coraggiose avanzate e timorose ritirate, arrivai a comprendere che non avrei mai raggiunto un'effettiva conoscenza in merito al minuscolo oggetto che tenevo in mano, e con quel pensiero (perché era un pensiero) pervenni ad un terzo stadio, uno stato di felice obbedienza priva di riflessione, poiché non c'era più nulla su cui riflettere, un'obbedienza a qualcosa che non sapevo cosa fosse e priva della minima sfumatura di ribellione. Quello stato permase per tutto quel giorno e per buona parte di quello successivo, che mi trovò ormai ben addentro sulle colline.
Qui mi fermo, dopo averti condotto, lettore, da una fortezza all'altra... dalla cintata città di Thrax, che domina il corso superiore dell'Acis, al castello del gigante, che dominava la spiaggia settentrionale del remoto Lago Diuturna. Thrax era stata per me la porta di accesso alle selvagge montagne... Così pure, questa torre solitaria doveva dimostrarsi un altro accesso... l'uscio stesso della guerra, di cui qui aveva avuto luogo una singola e distaccata schermaglia. Da quel tempo ad ora, quella guerra ha tenuto vincolata la mia attenzione quasi senza pausa.
Qui mi fermo. Se non desideri immergerti nella lotta al mio fianco, lettore, non ti biasimo. Non è una lotta facile.
APPENDICE
UNA NOTA SULL'AMMINISTRAZIONE PROVINCIALE
Il breve resoconto fornito da Severian sulla sua carriera a Thrax è il migliore (anche se non l'unico) documento di cui disponiamo in merito alla conduzione del governo nell'epoca della Repubblica, come essa viene svolta al di là dei lucenti corridoi della Casa Assoluta e delle brulicanti strade di Nessus. È chiaro che la nostra distinzione fra potere legislativo, esecutivo e giudiziario non è applicabile qui... indubbiamente, amministratori come Abdiesus riderebbero del nostro concetto per cui le leggi devono essere emanate da determinate persone, applicate da altre e giudicate da altre ancora. Essi considererebbero un simile sistema impossibile da far funzionare, come effettivamente si sta rivelando.
Nel periodo a cui risalgono i manoscritti, gli arconti ed i tetrarchi sono nominati dall'Autarca, il quale, come rappresentante del popolo, detiene ogni potere nelle sue mani. (Vedi tuttavia l'osservazione fatta da Famulimus a Severian su questo argomento.) Questi ufficiali debbono far eseguire i comandi dell'autarca ed amministrare la giustizia sulla base degli usi della popolazione da essi governata. Essi hanno anche l'autorità di creare le leggi locali... valide su tutta l'area governata dal loro emanatore per tutto il periodo in cui questi rimane in carica... e di farle rispettare con la minaccia della pena di morte. A Thrax, come anche nella Casa Assoluta e nella Cittadella, l'imprigionamento per un periodo di tempo determinato... la punizione per noi più comune... sembra essere sconosciuto. I prigionieri detenuti nel Vincula vengono trattenuti in attesa di essere torturati o giustiziati, o come ostaggi a garanzia del buon comportamento dei loro parenti ed amici.
Come mostra chiaramente il manoscritto, la supervisione del Vincula («la casa delle catene») è uno dei doveri del littore («colui che lega»). Questo ufficiale è il principale subordinato dell'arconte preposto all'amministrazione della giustizia criminale. Durante certe occasioni cerimoniali, egli cammina dinnanzi al suo signore reggendo una spada sguainata, un modo potente di ricordare l'autorità detenuta dall'arconte. Durante le sessioni della corte dell'arconte (come si lamenta Severian), il littore deve rimanere in piedi a sinistra del seggio. Le esecuzioni ed i più importanti atti di punizione giudiziale sono eseguiti da lui personalmente, ed egli sovrintende anche alle attività dei clavigeri («coloro che hanno le chiavi»).
Questi clavigeri non sono soltanto le guardie del Vincula; essi costituiscono anche un corpo di polizia investigativa, funzione facilitata dalla possibilità che essi hanno di estorcere informazioni dai prigionieri. Le chiavi che essi portano sembrano sufficientemente grandi da poter essere utilizzate anche come mazze, e sono così le loro armi, oltre ad essere i loro strumenti e gli emblemi della loro autorità.
I dimarchi («coloro che combattono in due modi») sono la polizia in divisa dell'arconte oltre che le sue truppe. Tuttavia, il loro titolo non sembra riferirsi a questa doppia funzione, ma all'equipaggiamento ed all'addestramento, che permette loro di agire sia come cavalleria che come fanteria in caso di necessità. Sembra che le loro file siano costituite da soldati di professione, veterani delle campagne del nord e non nativi della zona in cui operano.
Thrax stessa è chiaramente una città fortificata. Un luogo del genere non potrebbe resistere più di un giorno contro un attacco da parte dell'esercito asciano... sembra piuttosto progettato in modo da allontanare le razzie dei briganti e da reprimere le ribellioni dei locali esultanti ed armigeri. (Il marito di Cyriaca, che, all'interno della Casa Assoluta, sarebbe stato una persona assolutamente insignificante, risulta essere invece una persona di una certa importanza, e perfino di una certa pericolosità nelle vicinanze di Thrax.) Per quanto sembri proibito agli esultanti ed agli armigeri di avere eserciti privati, appare evidente che la maggior parte dei loro seguaci, anche se definiti cacciatori, camerieri e simili, sono fondamentalmente dei combattenti. Essi sono presumibilmente essenziali per la protezione delle ville dei padroni contro i razziatori e per la raccolta dei tributi, ma in caso di disordini civili potrebbero rivelarsi una potente fonte di difficoltà per governanti come Abdiesus, anche se la città fortificata posta a cavallo del fiume offrirebbe a questi una postazione terribilmente avvantaggiata in un conflitto del genere.
La via scelta da Severian per la fuga indica come potevano essere strettamente controllate le vie d'uscita dalla città. La fortezza stessa dell'arconte, il Castello di Acies («il campo armato della punta»), controlla l'estremità settentrionale della valle, e sembra essere completamente separato dal palazzo di città. L'estremità meridionale della valle è chiusa dal Capulus («l'impugnatura della spada»), che è, a quanto sembra, un muro di fortificazione molto elaborato, un'imitazione in scala ridotta del Muro di Nessus. Perfino le cime delle colline sono protette da fortini collegati da mura. Possedendo, come essa possiede, una riserva d'acqua praticamente inesauribile, la città sembra in grado di sopportare un assedio prolungato da parte di forze non dotate di armamenti pesanti.
G.W.
FINE